Gioie di Famiglia in mostra
E’ stato protagonista indiscusso dell’incantevole mostra “Il Cammeo Gonzaga” (svoltasi a Palazzo Te di Mantova nel 2008) e ci fornisce l’occasione per parlare di una delle più straordinarie collezioni di preziosi di tutti i tempi: quella dei Gonzaga, appunto. Cominciamo dallo strepitoso cammeo che venne inciso ad Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C., ora conservato al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Alto circa16 cme largo 12, è lavorato su un minerale a tre strati, una varietà d’agata nota come “sardonica d’Arabia”, e raffigura una potente coppia imperiale (sposi e fratelli insieme): Tolomeo II Filadelfo e la moglie Arsinoe II, signori d’Egitto. La qualità del manufatto è sublime: lo scultore-orafo scavò fino a raggiungere la venatura più profonda e scura della pietra usandola come sfondo, mentre modellò i volti dei due personaggi nello strato intermedio caratterizzato da due gradazioni di bianco, in modo che il profilo maschile sembrasse illuminato da un fascio di luce e quello femminile restasse nell’ombra. Inoltre, ricavò dallo strato superiore della pietra, di colore marrone, i capelli, l’elmo e lo scudo, inserendolo infine in una montatura d’oro. Un capolavoro, quindi.
Dopo misteriose peripezie, il cammeo nel 1500 giunse improvvisamente a Mantova entrando nelle collezioni di Isabella d’Este. Riuscì poi a scampare agli assedi della città, finendo a Praga, da dove fu trafugato rocambolescamente e condotto a Stoccolma, prima di raggiungere Roma via nave. Nell’Urbe, però, un ladro se ne impadronì e lo portò a Parigi, dove la “gioia” trovò in Giuseppina Beauharnais, consorte di Napoleone, una nuova proprietaria (per l’occasione, la gemma prese il nome di Cammeo Malmaison), finché la stella del Bonaparte si eclissò e fu lo zar di Russia Alessandro I ad aggiudicarsi la “piccola meraviglia”, che recò a San Pietroburgo con sé.
Ma come nascono i cammei, quali ne sono i materiali e le tecniche?
L’arte di far apparire la pietra malleabile come cera, incidendola per farne rilievi precisi grondanti di luce e colore, tali da creare l’effetto di una pittura, è molto difficile e delicata. Si dice che il miglior incisore della storia fu Dioscoride, che l’imperatore Augusto volle alla sua corte (come Alessandro il Grande aveva voluto Pirgotele). È la variopinta (e durissima) agata sardonica la regina in assoluto del cammeo. Lo scultore-orafo già nell’antichità sapeva ben armonizzare il disegno agli strati cromatici della gemma, ed il suo studio preliminare non poteva difettare di precisione estrema. Incideva, uno dopo l’altro, fino a 6-8 strati di colore col solo aiuto di un piccolo trapano ad arco dalla punta rivestita di un miscuglio di olio, smeriglio e polvere di diamante. Durante la lavorazione, puliva e lucidava ripetutamente con olio la pietra e, infine, la lavava con acqua tiepida. Era un lavoro che poteva durare anni. Alla fine, però emergeva la bellezza allo stato puro: le sfumature bianche, gialle e marroni della sardonica indiana, nere e blu della sardonica araba, in un gioco da favola di luci e ombre.
Il cammeo è nato presso le corti ellenistiche (Alessandria d’Egitto in primis) per rappresentare il massimo della preziosità: il lusso estremo, diremmo oggi. I sovrani dell’epoca amavano far incidere su pietra i propri ritratti e qualcuno, non accontentandosi delle semipreziose agata, onice e corniola, arrivò a far incidere diamanti, smeraldi, granati, ametiste. Cleopatra, ad esempio, era solita donare il proprio volto su diamante a coloro cui voleva rendere onore (emulata, in tempi più recenti, dalla regina inglese Vittoria, appassionata collezionista di cammei, soprattutto di turchese e conchiglia).
L’arte del cammeo – che aveva prodotto favolosi oggetti come la “Tazza Farnese”, la “Gemma Augustea” o il “Gran Cammeo di Francia” – cominciò a declinare col tramonto dell’impero romano, quando vennero meno anche le maestranze adeguate.
Oggi gli artisti del corallo sono sempre più rari, ma sopravvivono alcuni centri d’eccellenza, come l’italiana Torre del Greco, patria del corallo, dove ancora si lavora a mano col bulino.
In mostra a Mantova, oltre al “Cammeo Gonzaga”, vi erano altri raffinati cammei, fra cui, solo per citare un esempio, quello di “Dioniso su un carro condotto da Psychai”, realizzato nel I secolo a.C. da Sostratos, proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli (un tempo appartenente alla collezione papale).
A Palazzo Te si sono potuti ammirare, inoltre, innumerevoli tesori d’alta oreficeria della corte lombarda: gioielli (soprattutto a forma di animali), gemme, cristalli, argenti e mirabilia naturali (avori, coralli, corna di rinoceronte lavorate, uova di struzzo, porcellane, tappeti, disegni e stampe, dipinti e soprammobili, medaglie, monete, ecc.).
Finalità ultime di questo “fanatismo” collezionistico dei Gonzaga erano l’autocelebrazione e la volontà di primeggiare sulle altre case reali europee. Spesso, poi, questi preziosi erano doni diplomatici ricevuti da vari Paesi, che i Gonzaga quasi sempre ricambiavano con i cavalli dei loro celebri allevamenti.
I documenti attestano che nel Cinquecento la collezione Gonzaga era al suo massimo splendore, una delle più ricche e sofisticate del Continente. Poi – si sa come va il mondo (sic transeat gloria mundi, annoterebbe qualche latinista) – le vicende personali dei Signori di Mantova, con la conseguente compromissione della situazione finanziaria, cui si sommarono rovesci bellici e dinastici, portarono nel 1630 circa alla dispersione dell’immensa raccolta.