Sul filo di lana
“Casta fuit, domum servabit, lanam fecit”: così gli antichi concepivano le virtù femminili ideali (la donna perfetta doveva essere casta, governare la casa, lavorare la lana). Il “fare la lana”, in effetti, è considerato un’attività, oltre che utile, di assoluta dignità e decoro fin dalla notte dei tempi. La storia umana si è sempre intrecciata con quella delle fibre tessili naturali, in particolare della lana, le cui prime tracce risalgono a 25000 anni fa. Sono mille i fili in cui si è dipanata la civiltà di questa materia, compagna dell’uomo non solo nell’uso quotidiano, ma anche nel mito (dal filo di Arianna al vello d’oro recuperato da Giasone, dalla tonaca rossa di Gesù bambino che prefigura la Passione alla maglia lavorata a ferri da Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany”).
Dopo qualche lustro “ai margini”, con l’accusa di essere “démodé” e il rischio di subire un’umiliante banalizzazione, la lana come materiale di lusso è tornata in defilé indosso a modelle che la portano come opera d’arte dotata di un proprio linguaggio, testimone di un mondo industriale in perenne cambiamento (lontano è quel 1817 in cui il biellese Pietro Sella importava clandestinamente dal Belgio, a dorso di mulo, alcuni filatoi meccanici per installarli nel suo opificio di Valle Mosso, dando così il via ad una straordinaria avventura pionieristica, destinata a fare del distretto piemontese una capitale indiscussa della trasformazione di questo materiale).
La funzione principale della lana è sempre stata quella di proteggere dal freddo, ma le differenze di taglio e di pregio hanno pure riflesso le diversità socio-economiche. Nella fattispecie, i mutamenti della moda fra il XIV ed il XV secolo, privilegiando vesti ampie e lunghe fino ai piedi, decretarono la nascita, accanto ad un mercato di panni fini e finissimi accessibili solo da parte di una esigua fascia di nobili e alto-borghesi, di un commercio di “panni di garbo”, cioè di lana grossa. Dalla seconda metà del Seicento la formazione dei primi eserciti nazionali regolari, con la conseguente impennata nella domanda di lana per le uniformi, diede un eccezionale impulso a questa industria e dal Settecento in poi il tessuto di lana divenne quasi l’unico materiale impiegato dalla sartoria maschile.
La lavorazione domestica della lana, assieme a quella di lino e canapa, rappresentava una delle attività basilari già nell’alto Medioevo in varie aree d’Europa, in primis le Fiandre e l’Italia settentrionale (sino a Firenze). Furono gli artigiani fiorentini a specializzarsi a tal punto nell’industria laniera (con la migliore materia prima di provenienza inglese, acquistata sulla piazza di Bruges) da conquistare la leadership di mercato: in particolare, essi eccellevano nell’uso di coloranti e mordenti che rendevano più morbidi e preziosi i panni. Famosissimo ovunque era soprattutto il drappo di lana cremisi, detto “scarlatto”, immortalato con estremo realismo in tanti quadri rinascimentali.
Nella moda contemporanea, malgrado il diffuso spirito ecologista, la lana non sembra più trionfare (sebbene, come notato sopra, qualche stilista la riporti in passerella con entusiasmo e fantasia, sperimentando artisticamente), surclassata nelle preferenze da fibre artificiali e sintetiche. Da un lato, accade che si coltivi in modo maniacale il proprio corpo assecondando una forte sensibilità “naturalista” e, dall’altro, capita che si indossino indumenti “chimici”, dai cappotti alla lingerie, che ormai olezzano di provette e alambicchi assai più che di “Madre Natura”. Questa svolta nel costume, paradossale se vogliamo, si è avuta negli anni ’70 grazie a (o per colpa di) innovazioni scientifiche sensazionali, che hanno fornito alla moda nuovi tessuti “facili” ed economici, marginalizzando la lana.
In questo contesto, maturava anche un’involuzione dei valori vestimentari, per cui se prima abbigliarsi significava gratificare l’intimo bisogno di sentirsi a proprio agio, in seguito mirava essenzialmente a rispondere al piacere del mero apparire, dell’impressionare, dell’essere moderni e “palestrati” a tutti i costi. E così via libera al lattice e alla plastica in guardaroba, nonché a materiali dalle performance sempre più “aliene” (e, forse, alienanti). Finché qualcuno ha avuto il coraggio di esternare una certa delusione e di riscoprire il dolce fascino della maglieria di lana, restituendole il suo ruolo classico di emblema d’eleganza, di cultura, di gusto personale raffinato.
E pazienza se qualche patito dello sportswear ci giudicherà “anticonformisti” vedendoci passeggiare in centro con un bel cappotto di lana!