Le foto raccontano la creatività di Roberto Capucci
Sperimentare è sempre un po’osare, stupire inventando il nuovo, l’inedito; trasgredire modalità acquisite, uscire dai luoghi comuni. Sperimentare è il verbo dell’artista. Ancora oggi Roberto Capucci osa sperimentare e non solo con gli abiti di nuova creazione, ma cercando nuove rappresentazioni delle sue opere, quelle che da mezzo secolo a questa data ci ha regalato e che oramai occupano un posto alla pari con altre opere d’arte. E’ di qualche settimana fa la presenza di un abito di Capucci “La Donna Gioiello” nelle sale di Palazzo Braschi a Roma all’interno della mostra “Carnevale romano”. E sono innumerevoli le mostre “personali”, l’ultimo successo è stato “Sovrana Eleganza” – Roberto Capucci al Castello Odescalchi di Bracciano.
Durante il seminario “Gli archivi raccontano la moda. Testimonianze, immagini e suggestioni” svoltosi presso il Museo Boncompagno-Ludovisi di Roma e in occasione della “Settimana della Cultura” è stato presentato dai fotografi Sham Hinchey e Marzia Messina un loro personalissimo modo di rappresentare l’opera di Roberto Capucci: un concept forte accompagna ogni singola fotografia fatta di paesaggi dall’atmosfera surreale ottenuta sovrapponendo immagine diverse in grado di esaltare la singolarità dell’abito.
Abbiamo chiesto agli autori degli scatti una descrizione del lavoro fatto.
Le fotografie appartengono ad un vostro progetto in corso “THE WAVERING BALANCE” che è anche il titolo dato, tutte ne portano uno, ad una delle vostre realizzazioni. Quali sono gli elementi che accomunano le singole immagini?
Innanzitutto l’assenza del tempo, l’indecifrabilità di un orario, di un’epoca o di un luogo realmente esistente. Le donne sono spesso l’unico essere vivente che rappresentiamo. Sono narratrici, vestali che accompagnano l’osservatore in luoghi surreali nei quali soffermando lo sguardo è possibile cogliere messaggi riconducibili al nostro tempo. Si fanno così portatrici del legame tra passato presente e avvenire, tra storia e modernità. Infine l’umanità è sempre rappresentata ma sottoforma di opere d’arte come la scultura e l’architettura, oppure attraverso opere urbane ed elementi di palese riferimento contemporaneo che irrompono nella scena generando effetti ottici di forte contrasto.
“Danae” utilizza un abito scultura in taffetas smerlato, costruito con teli di vari toni di verde. E’ stato presentato nel 1992, in occasione dell’ultima sfilata della carriera di Roberto Capucci tenutasi al Teatro Shauspielhaus a Berlino con i solisti della Kammerensemble des Berliner Sinphonie.
Quale è il concept che avete assegnato all’ambientazione?
E’ la rappresentazione simbolica di una figura della mitologia greca, Danae figlia di Re Acrisio e di Euridice. Acrisio rivolgendosi ad un oracolo gli predice che sarà ucciso dal figlio di sua figlia. Danae viene rinchiusa dal padre in una torre di bronzo per evitare il compimento dell’oracolo, ma Zeus sotto forma di pioggia d’oro la feconda, nasce così Perseo. Deciso a non provocare l’ira degli dei uccidendo la sua discendenza, Acrisio abbandona in una cassa i due in mare. Il mare venne calmato da Poseidone su richiesta di Zeus, madre e figlio sopravvivono. La scena è immersa nel mare calmo dove però un cielo molto scuro evoca la coda di una burrasca quasi ad anticipare l’esito dell’oracolo. L’elemento verticale che irrompe al centro della foto è “900” scultura di Arnaldo Pomodoro e rappresenta la torre di bronzo, luogo di clausura della donna.
“Spazio” si serve di un bolero in gazaar bianco e nero lavorato a effetto tubolare. Si tratta della parte superiore di un abito da sera completato da gonna lunga bianca, presentato nel 1985 a New York nella sede dell’Army National Guard Armory. L’abito è stato ambientato in un tempio cambogiano del XII secolo.
Quali simboli racchiude l’immagine?
L’immagine è evidentemente un simbolo per il nostro tempo. Racconta il rumore, il chiasso dal quale non possiamo sottrarci. Le parabole tese a captare e rimandare segnali, gli spazi pubblicitari in vendita, tutto corrode la quiete e deturpa il luogo. Anche la donna sembrerebbe manifestare lo stesso stato di abbandono; ma proprio la sua presenza di sentinella e vestale degli elementi circostanti serve a trasmettere un sottile rimprovero.
In “The Queen of Sheba” abbiamo un abito veramente regale, presentato nel 1992, anche questo in occasione dell’ultima sfilata della carriera di Roberto Capucci, al Teatro Shauspielhaus a Berlino con i solisti della Kammerensemble des Berliner Sinphonie.
Un riferimento alla modernità ma utilizzando un personaggio del passato. Si tratta di una stigmatizzazione delle moderne capitali nel deserto o un esaltazione di ciò che in un passato molto remoto l’uomo, o meglio una donna, è stato in grado di fare?
Volevamo per quest’abito una donna regale e con una grande storia. Si pensa che la Regina di Saba possa essere vissuta nel secondo millennio A.C, a Marib capitale dell’antico Regno Sabeo nello Yemen e di aver regnato per circa 40 anni. La città era situata al centro del deserto ed era nota per lo splendore di grandi templi e palazzi. Le casette in legno pieno con cui abbiamo voluto ricostruire la città sono opere dell’architetto designer Michele De Lucchi. Nella nostra interpretazione le piccole case prendono nuove ed ingannevoli dimensioni, modellate su diversi livelli. Hanno il colore del deserto, le stesse sfumature dell’ocra degli antichi edifici eretti a mano, imperfette e calde.
Le metafore non finiscono qui. Tutte le immagini create dai due fotografi, ci regalano una riflessione. Ora sulle contraddizioni del progresso come in “Vertigo” che rappresenta il rapporto alterato tra Natura e Umanità . In “The Wavering Balance” lei, la donna con l’abito “Crete”, in taffetas plissé ermesino color creta esposto per la prima volta a Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1989, su un precario ponte sembra voler tentare di ristabilire l’armonia tra l’uomo e la natura rappresentata dall’acqua che bisogna risanare. Altre volte la riflessione è sui sentimenti, anche essi contaminati e smarriti, come in “Drive thru Venus” dove Venere è prigioniera di una palude su cui campeggia un totem, metafora dell’amore consumistico.