“Degrado ambientale”…. e non solo.
Gli anni passano, i figli crescono, le mode cambiano, ma…..Quel che si credeva potesse migliorare nel frattempo, non sempre migliora.
Non ci piace ripetere come un mantra le solite parole riguardo l’abbruttimento estetico che ad ogni estate si ripresenta, complice il caldo e il lassismo generale. Ma abbiamo il sentore che occorra ancor più di prima parlarne. Riproponiamo un articolo di due anni fa che riscriveremmo pari pari oggi.
Eccolo…….
Circa un mese fa mi ha colpito un’iniziativa che incitava ad inviare fotografie che documentassero gli scempi che, causa la noncuranza, l’incuria, la mancanza di senso estetico, stanno letteralmente portando al degrado il nostro “Bel Paese”.
Appello ai cittadini, dunque, di diventare “fotografi utili” per migliorare il nostro ambiente.
Il progetto, realizzato con il FAI e intitolato “Nuovo paesaggio italiano”, sostiene che occorre muoversi per contrastare “questa peste che cresce ogni giorno, questo brutto che avanza”.
Se dunque, come affermava Dostoevskij nell’Idiota, “La bellezza salverà il mondo”, cambiando le carte dovremmo essere d’accordo con S. Zecchi – professore ordinario di Estetica presso L’università degli studi di Milano, nonché scrittore e giornalista- che “oggi bisogna salvare la bellezza dal mondo”.
L’esperienza del bello è infatti qualcosa che fa riferimento al concetto di cultura e, al tempo stesso, di emotività, di moralità, di estetica. Si dice che, nella lingua Navajo, viene usata un’unica parola per esprimere la bellezza, la salute, la felicità, l’armonia, la bontà e ricordiamo che, un tempo, agli albori della nostra cultura occidentale, la bellezza era l’attributo dell’idea: un atto di giustizia, un gesto di bontà, la verità stessa, venivano considerati “belli”.
L’ odierna sfrontatezza o spudoratezza (nel suo I vizi capitali e i nuovi vizi il filosofo U. Galimberti considera quest’ultima uno dei sette nuovi vizi) nell’esibire senza “prudèrie” disfacimenti, mancanza di armonia e di proporzioni, omologazione nell’appiattimento, non può certamente aiutarci a definire l’amore per la bellezza come un valore. Poiché la bellezza si salvaguarda e si mantiene quando, nel vederla, impariamo ad amarla e a sentirci privilegiati nel vivere in mezzo ad essa, combattere tutto ciò che la vorrebbe distruggere credo sia un dovere assoluto. Forse dunque il brutto e, in questo caso, la rappresentazione del brutto tramite scatti fotografici, potrebbe diventare veicolo di “educazione al bello”, in modo quasi paradossale. Una sorta di presa di coscienza, di scuotimento, di elettrochoc che diradi, svegli e incoraggi. Che tolga ipocrisie mascherate da false necessità.
Se tutto ciò lo trasliamo al modo di vestire che ogni giorno vediamo per le strade, sulle spiagge, nei luoghi pubblici o addirittura in quelli di culto, viene da affermare che l’urgenza è ancora più grande o perlomeno equivalente.
Sono reduce da due fine-settimana al mare e credo proprio che, quest’anno, le vacanze le andrò a fare in montagna” sempre che, anche lì, il buon senso consigli adeguatezza al buon gusto. Sì, perché l’abito appropriato, così come una costruzione ben inserita nel paesaggio, è qualcosa che si conviene al tempo, al luogo e alla funzione.
Un interessantissimo saggio che tratta di estetica e povertà sottolinea come, perfino in ambienti di massima indigenza, la presenza di oggetti ritenuti belli “agiscano in senso sociale e cognitivo nella vita delle persone”, migliorando e dando ordine ad un contesto quotidiano a volte difficilissimo.
Estetica che educa, dunque, che crea etica. Non ci stanchiamo di ripeterlo.
Credo sia quasi un dovere civile suggerire ad una nonna che spinge un passeggino di coprire quell’ombelico osceno che, messo in bella mostra da altrettanto osceni pantaloni a vita bassa, diventa imbarazzante. Pare infatti che, sempre più, la voglia di giovanilismo vada di pari passo con la mancanza di auto-critica. Ed ecco che allora le quattordicenni si vedono defraudate dei loro “succinti abitini” da madri che li hanno loro regalati con l’idea di indossarli alla prima “occasione”, al posto delle figlie. Dicasi lo stesso per quei bikini improponibili che, grandi quanto un francobollo, pretendono di coprire ciò che neppure un lenzuolo a due piazze (anche se di un letto francese!) riuscirebbe a contenere.
Ma forse (e senza il forse) è proprio questo che si vuole: mostrare ciò che mostrabile non è, esibire ciò che il “coraggio” del buon gusto ci porterebbe invece a nascondere. E qui non c’entrano i moralismi, c’entra il fatto che, se alcuni capi addosso “non stanno bene”, soprattutto non “sta bene” l’averli addosso; c’entra il fatto che essere esageratamente vistosi o esageratamente trasandati arriva quasi ad “offendere” gli occhi, a “ferirli”. Sicuramente, ricorrere ad artifici per migliorare il proprio aspetto fisico non è cosa nuova, ma quel che oggi è cambiato è l’accettazione della diffusione selvaggia di tali artifici e dunque un atteggiamento passivo verso ciò che “disturba” (qui il parallelo con l’ambiente è quasi ovvio).
L’eleganza di un individuo, come abbiamo sempre affermato, è qualcosa infatti che “riveste” e “investe” tutta la persona, a partire dal suo stile, dal suo modo di essere e di comportarsi. Se l’esternazione di come “siamo dentro” la rappresentiamo con una modalità che non ci assomiglia in nessuna maniera soltanto perché “così fan tutti”, “così è la moda”, “così le tendenze esasperate indicano”, “così alcuni incompetenti addetti ai lavori suggeriscono”, come potremo riconoscerci guardandoci allo specchio o semplicemente nello sguardo altrui?
Se qualcuno ci dice che il tacco dodici ci slancia, evitiamo però di metterlo per raggiungere un rifugio a 1.200 metri!! A quell’altitudine non serve il nostro “svettare” così come non serve sfoggiare in una barca in cui si condividono momenti a volte puramente pratici, lo stesso completino che ci ha reso graziose in un villaggio turistico o in crociera. Ora “vanno” moltissimo i tatuaggi eloquenti e, di conseguenza, gli abiti che li possano far “parlare” meglio. Via dunque a scollature, spacchi, accorgimenti vari che li evidenzino al massimo, senza ritegno, basta che possano URLARE. Magia della comunicazione !!!
È il corpo, con il suo movimento, che “anima” l’abito; ma è l’anima che dà “corpo” all’abito e lo trasforma in qualcosa che è tutt’uno con ciò che siamo. E questo per essere tali, sempre. I nostri vestiti, come la nostra casa e gli oggetti che l’adornano, i luoghi di vacanza che prediligiamo, le persone con cui scegliamo di condividere strade e vita (potremmo andare avanti all’infinito), diventano, come suggerisce il saggio di cui sopra, un “vero e proprio corredo per l’identità”, antropologicamente parlando.
Solo la conservazione di tale principio credo possa dare nuovo respiro a ciò che, a volte, appare irrecuperabile. Non sicuramente ancora perso, però.
Scriveva Sant’Agostino:
“”¦.. lo spettacolo mirabile del mare, che assume i suoi diversi colori come se cambiasse d’abito: ora verde, con tutte le diverse sfumature, ora viola, ora azzurro”¦..”
Se questo non ci basta”.
“La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una all’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, e un possesso per tutta l’eternità” scriveva Oscar Wilde.
Aforisma per me azzeccato, vero come il Sole e la Luna.
Vera quella sensazione di fastidio, una leggera nausea, parrebbe un colpo di calore o piccola indigestione, una congestione apparente che ti prende nel vedere certe cose.
Certo liberi, per carità,” liberi tutti”, come si faceva giocando a nascondino da bambini.
Resta, indubbiamente implacabile il buon gusto che non tramonta mai.