Alexander MCQueen: “Bellezza selvaggia” a New York
E’ stato l’ultimo rivoluzionario puro dell’haute couture, visionario come solo un genio poteva essere. E’ passato più di un anno dal maledetto giorno in cui Alexander McQueen, decise di togliersi quella vita che – solo lui sa perché – gli era divenuta disperatamente insopportabile. Ora New York gli dedica un’importante retrospettiva (dal 3 Maggio al 31 Luglio) all’Istituto del Costume del Metropolitan Museum, che vuol essere un inno alla libertà del suo slancio creativo, un riconoscimento al suo magistero estetico, un omaggio alla “bellezza selvaggia” del suo stile: il titolo dell’evento è infatti “Alexander McQueen savage beauty”.
Curata da Andrew Bolton, la mostra propone un centinaio di abiti originali dello stilista inglese, tra cui le perfette giacche-kimono, il provocatorio Bumster ovvero il primo pantalone a vita bassissima che esaltava il cosiddetto “lato B”, romantiche creazioni di linea neo-vittoriana, inquietanti salti nel futuro con pezzi ispirati a Avatar, costumi scenografici, gotici e deformati, spesso con l’immagine del teschio a simbolo non tanto di una fantasia lugubre e un pensiero nichilista, quanto di una mente complessa, consapevole della “vanitas” di un mondo i cui confini col vacuo&fatuo non sono sempre netti.
In realtà, McQueen era prima di tutto un esteta “digitale”, un umanista di nuovo stampo, un pioniere dello “stil novo” fondato sulla fusione tra pop e natura, provocazione tematica e rigore sartoriale, sublime e orrido, utopia e realismo, un demolitore di miti e uno squisito maestro di taglio, cucito, tecnica, ornamento. Insomma, un sovversivo della scena fashion che voleva distruggere per ricostruire, anzi per restituire dignità ad un mondo a rischio continuo di perderla. Per aver capovolto i canoni dell’arte sartoriale fu anche definito “hooligan dell’alta moda”, ma più che “cercare la rissa” (in senso metaforico ovviamente), egli aspirò a épater le bourgeois, scandalizzare i benpensanti per scuoterli dal loro torpore cognitivo e aprirli al nuovo che avanza.
Nella sua carriera rimasta troppo breve egli lavorò per grandi griffe quali Romeo Gigli, Givenchy, Gucci, Puma, conquistando prestigiosi riconoscimenti come “stilista dell’anno”, ma fu solo con la nascita della sua linea personale che egli poté liberare tutta la carica creativa dirompente che aveva dentro, la capacità di anticipare i fenomeni di costume futuri (ad esempio lo street style), la drammaticità del suo approccio narrativo alla passerella (che gli faceva inventare incredibili colpi di teatro: chi non ricorda, ad esempio, la modella con le gambe amputate che sfilava su protesi di legno decorate?).
Dopo di lui nulla è più stato come prima nella moda, perché quel ragazzo timido e sensibile, talento stilistico allo stato puro fin dagli esordi in Savile Row a Londra, formatosi poi alla St. Martin’s School of Art, ha sparigliato la concezione stessa della moda rendendola più “popolare”, nel senso di farla ribellare a se stessa per ridarle spessore, autorevolezza, magia. Ed è questa la missione che la sua collaboratrice storica Sarah Burton, oggi fulcro creativo della maison, cerca di portare avanti, recuperando la dimensione teatrale e gotica, non scevra di romanticismo, dell’estro di McQueen.
Le donne dal forte temperamento lo hanno sempre adorato, a cominciare dalle vip, tra cui Cate Blanchett, Helen Mirren, Michelle Obama, Bjork (che gli dedicò pure una canzone inserita nel video “To Lee, with love, Nick”). Omosessuale e tutt’altro che misogino (malgrado le accuse piovutegli da più parti), McQ aveva nella madre e nella fashion guru Isabella Blow le sue muse più vere, amiche, confidenti, e quando le perse volle perdersi anch’egli, a soli 30 anni.
Bene fa ora la Grande Mela a rendere un significativo tributo alla magica visionarietà di questo genio, il cui “spirto guerrier” sotto coltri di fragilità nutriva la bellezza più selvaggia.