Un mondo di cose belle.
Non può che essere felice la Pasqua di chi in questi giorni ha occasione di ammirare i nove esemplari delle favolose uova-gioiello create da Fabergé per gli zar di Russia esposti fino all’11 Giugno a Roma presso i Musei Vaticani (Salone Raffaello), assieme ad altri 140 capolavori del grande orafo francese (ora parte della collezione del magnate ucraino Viktor Vekselberg).
Tutto ciò ci induce a riflettere su come l’uomo in ogni tempo abbia amato circondarsi di “mirabilia”, cose belle per sé e per gli altri. Già i nostri antenati cavernicoli, quando raccoglievano per caso sassi colorati e lucenti sui letti dei fiumi o fra le rocce, non trovavano di meglio che adornarsene oppure offrirli alle loro compagne. Nasceva in questo modo un’attività che avrebbe poi toccato vette di raffinatezza e creatività straordinarie, alla quale fu attribuito il nome generico di gioielleria.
Dapprima esercitata a livello artigianale, anche da grandi artisti come Cellini e Picasso in epoche diverse, essa si esprime oggi in dimensione industriale, ma pur sempre all’insegna della bellezza, dello stile, della classe. Riteniamo interessante, quindi, sebbene in maniera sommaria e limitandoci ad alcuni temi essenziali, passare in rassegna i “gioielli” che hanno contraddistinto un periodo storico e che ancora preservano un valore reale, come dimostrano le quotazioni raggiunte in sede d’asta e gli infiniti tentativi di imitazione a cui sono sottoposti.
LE UOVA IMPERIALI. All’Esposizione Universale di Parigi del 1900, furono per la prima volta esibite al pubblico le celebri uova-bijou create da Carl Fabergé, orafo ufficiale della corte russa, in onore degli zar Alessandro II e Nicola II. Ma questi preziosissimi object d’art, realizzati in pietre dure e spesso completati da ingegnosi meccanismi a carillon che facevano muovere e cinguettare uccellini tempestati di diamanti, furono offerti dai Romanov anche ad esponenti delle case reali europee in visita a Mosca o San Pietroburgo in occasione della Pasqua. Non di rado, le uova di Fabergè erano costruite sul modello di scatole cinesi, con l’impiego di varie gemme per ogni involucro, così da ottenere uno splendido effetto cromatico. Le pietre più utilizzate erano in particolare: lapislazzuli, malachite, turchese ed onice, mentre le decorazioni e le legature erano in oro (quasi sempre, inoltre, sull’ovale scintillavano le iniziali dello zar in diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri).
TABACCHIERE E PORTAPASTICCHE. L’epoca compresa tra Cinquecento ed Ottocento fu caratterizzata, per gli orafi ed i tagliatori di gemme, da una particolare attenzione verso gli oggetti piccoli e sofisticati, che contribuissero ad affermare visibilmente rango e ricchezza di quanti potevano permetterseli ed ostentarli. Fu allora un trionfo di scatoline portapasticche così come di tabacchiere miniate e costellate di pietre preziose e semipreziose. Tra i materiali più usati ricordiamo: perle, corallo, opale, tormalina, cristallo di rocca, legno pregiato, porcellana, oro ed argento.
AMPOLLINE E BOCCETTE. Da migliaia d’anni prospera l’arte di creare profumi. Abilissimi nel combinare formule aromatiche raffinate furono gli Egiziani ed i Cinesi, ben presto però eguagliati in perizia dai monaci europei e dagli erboristi. Si impose la necessità, di conseguenza, di fabbricare dei contenitori ad hoc per conservare al meglio le fragranze. Il vetro è stato il primo elemento preso in considerazione ma, in virtù della sua estrema fragilità, ad esso vennero subito preferite le pietre dure, soprattutto per i profumi da viaggio. I flaconi erano quasi sempre ricavati da un unico blocco di giada, turchese o malachite, e spesso sui tappi gli orafi incidevano piccole fugure o simboli riferiti alla persona a cui il profumo era dedicato o destinato in dono.
BOTTONI, FIBBIE, SPILLONI. Nel Rinascimento, ma specialmente nel XVIII secolo, oltre alla gioielleria tipicamente femminile, ricevettero notevole impulso gli ornamenti adibiti al guardaroba maschile. Infatti, su giubbe, redingotes e marsine di linea severa, magari confezionate con tessuti di pregio laminati in oro od argento, spiccavano bottoni stupendi, realizzati in gemme preziose e semipreziose. Gli uomini, inoltre, portavano magnifiche fibbie sulle scarpe, spilloni sugli sbuffanti jabots che fungevano da cravatta, ciondoli deliziosi alle catenelle che reggevano l’occhialino. Spilloni di vario colore e di squisita fattura, comunque, completavano anche le eleboratissime parrucche delle dame, costituendo delle autentiche opere d’arte in miniatura.
PORTAFORTUNA. E’ praticamente impossibile stabilire il momento in cui gli uomini, avendo attribuito poteri magici alle diverse gemme, decisero di dar loro forme particolari per chiedere aiuto alla fortuna. A seconda dell’epoca, della civiltà e della religione, gli orafi si impegnarono dunque a creare sfere, dadi, simulacri di divinità o di animali ritenuti sacri (come il gatto per gli Egizi, ad esempio). Questi simboli venivano poi legati in metallo prezioso e fissati a catenelle o bracciali. Ancora oggi, tra i portafortuna più diffusi in Italia vi sono i corni di corallo, i gobbini, le manine in atto di compiere gli scongiuri, le croci in pietre preziose.
CAMMEI. Frutto della maestria degli intagliatori di pietre, i primi esemplari dell’arte glittica risalgono al III secolo a.C. Le gemme più utilizzate sono state e sono: onice, agata, cristallo di rocca, sardonica, corallo e, in generale, le pietre semipresiose dotate di venature e di varie colorazioni a strati che l’artigiano, per così dire, isola, ricavando da ogni tinta una figura. I Greci e gli Egiziani ci hanno lasciato delle opere mirabili in questo senso e tuttora i cammei riprendono per lo più motivi e soggetti d’epoca ellenistica o comunque classica. Attualmente, tra i più abili esecutori si annoverano quelli di Torre del Greco, che impiegano anche particolari conchiglie con esiti eccezionali.
SCARABEI. Rinvenuti nelle tombe dei Faroni egiziani, che consideravano questi coleotteri apportatori di fortuna e perciò degni di venerazione, erano intagliati in gemme preziose e semipreziose (successivamente trasformati anche in sigilli recanti sul retro l’emblema del sovrano di turno). Gli orafi dei Faraoni eccellevano in particolare nella lavorazione del turchese, della corniola, del lapislazzuli e dell’oro, che coprivano di smalti policromi. Ne resta una grandiosa testimonianza nella collana della principessa Sit Hat-Hor Yunet della XII Dinastia (1750 a. C.), custodita al Metropolitan Museum di New York, ricchissima di pietre intarsiate, che è giustamente reputata il più bell’esempio di oreficeria di tutta l’antichità precristiana.
SIGILLI. L’uso dei sigilli cilindrici in agata, turchese e lapislazzuli è iniziato cinquemila anni fa in Mesopotamia. Questi cilindri, che si portavano al collo od ai polsi, sulla superficie esterna recavano incisi dei segni, che ne facevano identificare il proprietario. In tal modo si imprimeva su tavolette di creta o cera una sorta di firma, che poteva convalidare atti di compravendita, contratti di matrimonio od il riconoscimento di un debito. Dai cilindri si arrivò poi gradualmente all’anello, con le medesime funzioni, adottato per primi dai Faraoni egiziani, che fecero incastonare degli scarabei su pesanti cerchi d’oro. Al di fuori appariva la solita sagoma del sacro coleottero, ma una volta sfilato dal dito e grazie a due perni lateriali, la pancia dell’insetto ruotava ed appariva il simbolo del suo proprietario, ossia la firma, che attestava l’autenticità di un atto giuridico. Quando un marito egiziano infilava questo anello al dito della moglie, la consacrava custode dei suoi beni, e da questa usanza è derivata la tradizione delle nostre fedi.