Esportare la dolce vita
Esportare la dolce vita. È questo il nome e il proposito del convegno organizzato da Confindustria, unitamente ad Assolombarda e al centro studi Prometeia, sugli obiettivi e le opportunità delle aziende italiane all’estero entro i prossimi sei anni.
La dolce vita ci rimanda ad un immaginario lontano nel tempo, ma quanto mai significativo per la storia del nostro Paese, denso di fascino e suggestioni che hanno reso l’Italia famosa a livello mondiale per uno stile di vita unico nel suo genere. Ed è proprio da tali traguardi che la nostra economia dovrebbe ripartire, esportando non solo semplici prodotti, ma tutto il bagaglio culturale e simbolico che questi stessi prodotti portano con sé.
È dunque questa la sfida che Confindustria lancia all’imprenditoria nostrana, artefice di notevoli successi in passato riguardo agli investimenti esteri, ma manchevole al momento di un’ulteriore spinta alla crescita che Paesi come la Francia e la Germania stanno sviluppando con eccellenti risultati. La crisi degli ultimi anni ha inevitabilmente segnato i consumi interni e le quote di mercato conquistabili internazionalmente, ma i dati relativi al primo trimestre del 2011 diventano confortanti in un’ottica futura, se si pensa al lieve miglioramento riportato nelle esportazioni, soprattutto nel settore dell’abbigliamento e delle calzature.
Nell’ultimo ventennio non si fa che sottolineare costantemente l’incombente minaccia economica e competitiva rappresentata dagli ormai noti mercati emergenti, Cina e India in primis, seguite dalla Russia, che presenta però una struttura di consumi più matura e articolata. Il peso crescente delle prime due potenze, oltre a farsi sentire lungo l’intera filiera delle produzioni di massa e negli innumerevoli bazar spuntati in ogni angolo delle nostre città, si sta progressivamente spostando proprio sul lato più consumistico. Le strutture sociali si stanno modificando a ritmi serratissimi, la classe media si sta ampliando e rafforzando e conseguentemente il potere d’acquisto diventa sempre più pressante.
I nuovi ricchi, la cui quota aumenterà di 188 milioni entro il 2016, guardano alla manifattura europea ed italiana in particolare come al raggiungimento di uno status symbol, frutto di un percorso di crescita economica e sociale che li sta traghettando nel tempo verso consumi sempre più frequenti, in cui la massima attenzione è riservata al logo e alla griffe. È proprio facendo leva sul forte potere simbolico del made in Italy che le nostre aziende negli ultimi tempi continuano ad aprire in loco numerosi punti vendita, sia indipendenti, sia all’interno di grandi magazzini e hotel di lusso.
L’apertura di tali store costituisce per le nostre aziende un notevole investimento, non solo per le alleanze strategiche da mettere in campo con gli imprenditori locali, ma anche per l’ampia procedura di training del personale, finalizzata a trasmettere al consumatore finale una cultura di prodotto che purtroppo, ad oggi, risulta ancora incompleta all’interno dei mercati emergenti. Appare quindi chiara la difficoltà per le piccole e medie imprese di mettere in atto solidi investimenti in tali Paesi, manovra invece molto più agevole per i grandi gruppi finanziari del lusso.
Se fino a qualche decade fa si guardava ai giganti orientali semplicemente come siti di produzione, in cui poter usufruire degli innegabili vantaggi di costo, relativi alla manodopera e ai meno stringenti limiti legislativi, nel XXI secolo non basta più. Questi Paesi sono cresciuti, socialmente ed economicamente, sviluppando temuti competitor a livello internazionale e investendo imponenti capitali nei più disparati ambiti dell’industria, compresa quella occidentale. Per quanto riguarda la Cina, ad esempio, le zone costiere e l’area orientale in particolare sono progredite a ritmi impensabili e parallelamente la classe media si è imposta come la nuova classe dirigente, attuando quel percorso che l’Occidente ha sperimentato più di mezzo secolo fa. Allo stesso modo, l’India si sta progressivamente uniformando agli standard occidentali, nonostante i tempi e i modi di adeguamento siano molto diversi rispetto al concorrente cinese, data la presenza di una cultura tradizionale molto più significativa e totalizzante.
Tali popolazioni hanno quindi superato da un po’ la fase iniziale di accettazione del prodotto occidentale, arrivando a considerare quest’ultimo come una conquista sociale ed un simbolo di ricchezza. Non è quindi difficile ipotizzare per il futuro un percorso del tutto simile a quello sperimentato dal consumatore occidentale nel tempo, che inglobi quindi una precisa cultura di prodotto, unita ad una propensione all’acquisto che sia prima di tutto emozionale.
Affinché tali previsioni possano trovare una definitiva realizzazione, è necessario che il nostro Paese investa sul commercio estero valutando anche altre variabili, come l’apertura di più Istituti di cultura internazionali, flussi turistici in entrata e la registrazione dei marchi sui mercati esteri.
È quindi solo penetrando tali mercati da un punto di vista culturale e simbolico, oltre che produttivo ed economico, che sarà possibile sfruttare e trarre indiscussi vantaggi dalle potenzialità ricettive dei nuovi giganti internazionali.