Il valore del femminile.
Donne in fermento. Dalla battaglia contro l’anoressia, alla riscoperta delle rotondità, dai sempre più discussi messaggi pubblicitari, alle manifestazioni in piazza. Ecco che i fari si riaccendono sulla “questione femminile”, tanto nella moda, quanto nella politica e nella comunicazione. Forse nell’aria c’è un rinnovato bisogno (o un desiderio?) di recuperare il valore della femminilità.
Ne abbiamo parlato con Marina Terragni, giornalista di Io donna e autrice del libro “La scomparsa delle donne. Maschile, femminile e altre cose del genere” (Mondadori).
La chiacchierata comincia con una domanda sul significato della parola femminilità, oggi. La risposta di Terragni è preceduta da una precisazione: “Femminilità non è una parola che uso volentieri. Meglio femminile, perché femminilità è già un femminile che concede al maschile”. Dal punto di vista dell’immagine, prosegue la giornalista, “il valore del femminile lo vedo oggi in una grande fluidità, in una destrutturazione delle rigidità e in una grande libertà di interpretazione del corpo. Nella non omologazione ai modelli maschili: questo è il femminile, lo abbiamo talmente sepolto nei processi di emancipazione che è un’avventura ritrovarlo”.
D Fluidità, morbidezza: le stesse che, come scrivi nel tuo blog, hai notato, ad esempio, nell’abbigliamento delle donne durante la presentazione della nuova giunta alla città di Milano. Ti sembra un passo avanti rispetto alla rigidità degli anni ’80, quando l’abito manageriale sembrava voler eliminare la differenza di genere?
R: “Me lo auguro vivamente, anche se sono consapevole che a volte si parte così e poi quando entri in quei luoghi ti scontri con un simbolico talmente forte, talmente consolidato, che la possibilità di perdersi è molto concreta. Sto osservando quello che fanno le nostre assessore: è ancora presto, ma ancora non vedo segni di femminilizzazione della politica. Niente che mi faccia dire: ecco lo scarto simbolico! Non ho ancora visto il doppio sguardo (quello femminile e quello maschile, ndr) in azione. Secondo me la fase successiva deve essere quella di convocarle ed esortarle a lavorare sui linguaggi, sui modi, sui passaggi, sui rituali. C’è da cambiare un bel po’ di cose”¦”
L’apporto femminile alla gestione della cosa pubblica, insomma, sembrerebbe molto semplice. “Si tratta di partire da sé anche di fronte a un grande problema pubblico, chiedendosi: come lo affronterei io? E non lasciarsi condizionare dal già pensato e codificato” spiega Marina Terragni, “Si tratta di riferirsi alle nostre pratiche, di non dimenticare come siamo state nelle case, dove abbiamo esercitato il femminile, di non liquidare quei modelli, di vedere che cosa c’è lì che può venirci buono nel governo del mondo”.
D: In cosa identifichi, quindi, la femminilizzazione della politica?
R: Come dicevo si tratta di lavorare sui codici della politica e di tenere sempre ben presente che i generi sessuali sono due, anche facendo le forzature necessarie a rompere un simbolico consolidato.
D: L’abito in sé deve sottolineare la differenza di genere?
R: “Sì, immagino di sì, perché no! Perchè mi dovrei vestire come un uomo?! Capisco che quando si è nei “luoghi del potere” ci si deve proteggere dal fatto di poter essere equivocata, quindi si tende a evitare mise che enfatizzano troppo il proprio potenziale seduttivo, magari ci si scolla un po’ meno”¦ Io, per esempio mi sento a mio agio con un tailleur dal taglio maschile, però che questo debba essere un obbligo per essere presa sul serio”¦ Scegliere l’abito è libertà espressiva “.
D: Donne e comunicazione: che differenza c’è secondo te tra il manifesto del Pd e il servizio sulle “Belle Vere” di Vogue? Perché si è gridato tanto allo scandalo del primo e non del secondo?
R: “Il servizio di Vogue pone un’alternativa secca tra anoressiche e prostitute. Ho trovato invece il manifesto del Pd un saggio di stupidità comunicativa. Non è questione di centimetri di pelle esposta. L’obbrobrio è abbinare politica e sex-appeal. In questi anni abbiamo dovuto combattere col fatto che se non eri abbastanza bella in politica non entravi: se si continua a farlo si resta in quel solco! La bellezza femminile è un dono prezioso, il godimento del corpo una cosa bella e legittima, ma quando siamo in politica, siamo lì per fare altre cose e non per sedurre e blandire gli uomini”.
D: Torniamo alla moda: hai chiesto agli stilisti di aiutare Milano a diventare più bella. Cosa potrebbero fare? E non pensi che parte del decoro della città potrebbe manifestarsi in un ritorno all’eleganza, che era il vanto di Milano?
R: Trovo che Milano sia ancora una città sobria, elegante. Una città austera che non ama l’esibizione, è proprio del carattere milanese. E tutti quelli che vivono qui, anche da poco, sentono questo richiamo a un certo understatement. A Milano c’è anche una tradizione di mecenatismo e di filantropia molto antica: la borghesia si è sempre impegnata nell’aiuto di chi aveva bisogno, oltre ad aver donato i suoi figli alla politica. Le grandi griffe da Milano hanno avuto tantissimo: soldi, successo, fama, ma hanno restituito ben poco. E invece potrebbero fare qualcosa di utile per i cittadini, anche firmandolo con il proprio nome, perché no? Non parlo solo di soldi, ma anche di idee, chi lavora con la bellezza e la esporta in tutto il mondo potrebbe anche regalarne un po’ alla città. Adottare un luogo di periferia da risanare (come ha fatto, per Roma, Diego Della Valle, patron del marchio Tod’s, che si è impegnato economicamente per il restauro del Colosseo -che proprio in periferia non è, ma tant’è!-, ndr), ognuno secondo i propri modi e secondo la specificità del proprio tratto, del proprio stile. Gli stilisti lavorano a Milano, fanno l’immagine di Milano: sarebbe una bellissima cosa se partecipassero, creativamente e economicamente, a far muovere una città che è ferma da molti, molti anni. Loro lo sanno benissimo, conoscono il resto del mondo”.