Zapping tra le notizie di moda
Il cappottino in loden verde bordato di rosso che Valentino creò per Audrey Hepburn – in mostra recentemente al Museo dell’Ara Pacis in occasione del 50° anniversario del film “Colazione da Tiffany” – ha consacrato il ritorno in voga del loden, il celebre tessuto tirolese caldo e resistente che dal Medioevo è giunto fino ai nostri giorni. Tra gli alti e bassi dei diktat del fashion system, questa stoffa di lana infeltrita e cardata (in origine solo di colore grigio, usata dai pastori della Val Pusteria per proteggersi dalle intemperie) sta vivendo da qualche tempo una nuova età dell’oro, ed è persino diventata emblema del Governo Monti, dato che più di un ministro ha mostrato di apprezzare molto il classico cappotto verde indossandolo anche in occasioni ufficiali. Capo della più solida tradizione, il loden venne sottratto alle sue umili origini niente meno che dall’imperatore austriaco Francesco Giuseppe che commissionò un candido mantello al lanificio Mössmer di Brunico, lanciando così una moda tra l’aristocrazia asburgica. Oggi il loden sfila anche in passerella, facendo la sua comparsa da Pucci sotto forma di redingote, mentre il marchio trendy Moncler ha lanciato con successo sul mercato il piumino impermeabile di loden (non a caso considerato il Gore-Tex di una volta).
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Il grande fotografo francese Patrick Demarchelier ha raccontato l’alta moda di Dior dal 1947 ai nostri giorni in uno strepitoso volume fotografico intitolato semplicemente “Dior Couture” (Rizzoli), la cui prefazione è stata scritta dall’artista americano Jeff Koons. Le immagini di Demarchelier impressionano per la loro forza icastica e per la potenza evocativa, che le rende estremamente moderne, frutto comunque degli ideali personali di chi le ha scattate. Il perdurante vitalismo della maison parigina emerge, oltre che dallo stile del suo fondatore Christian Dior (scomparso nel 1957), creatore del New Look, nei modelli concepiti da Yves Saint-Laurent che gli successe, a cui poi fece seguito Marc Bohan e infine John Galliano (geniale in termini professionali, ma giustamente “punito” con l’allontanamento per alcune infelici battute razziste), per arrivare ad oggi in cui il posto di direttore creativo risulta vacante (non per molto ancora, si suppone). Va però rilevato che stranamente De Marchelier non ha documentato con le sue foto nel libro l’ottimo lavoro che il “nostro” Gianfranco Ferrè comunque svolse nei sette anni di collaborazione con l’atelier di Avenue Montaigne (peraltro molto stimato dalle maestranze sartoriali), unica nota stonata forse in un’opera documentaria che come poche sa esaltare la mirabile vocazione per l’alta moda del marchio Dior.
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Fa piacere, ma indubbiamente desta stupore, la carriera-lampo in Borsa di un’azienda di moda simbolo del made in Italy come Salvatore Ferragamo, che in soli sei mesi è passata da matricola a blue chip. Come spiegare questo exploit (in tempo di crisi per il mercato in generale) dello storico gruppo fiorentino? Senz’altro ha contato l’effetto “rarità”, così come l’appartenenza al settore del lusso italiano che non conosce battute d’arresto da anni, anzi risulta sempre più redditizio. Ferragamo, che è stata l’unica matricola del2011 a Piazza Affari, ha visto i suoi titoli crescere di oltre 11 punti percentuali dal momento della quotazione nel Giugno scorso, e già a fine Dicembre ha potuto fare il suo ingresso nell’indice Ftse-Mib fra le 40 società più capitalizzate della Borsa di Milano. Gli investitori hanno particolarmente apprezzato i buoni risultati di bilancio dell’azienda, che ha messo a segno una crescita del fatturato del 27,6% nei primi 9 mesi del 2011 e un’impennata dell’utile netto pari al 77,6%, potendo vantare una liquidità di tutto rispetto tale da coprire gli oneri finanziari. Sull’ottima performance borsistica di Ferragamo ha pure influito il promettente piano di espansione nei Paesi emergenti, basato sull’autofinanziamento, che ha convinto pienamente la business community.
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Coco Chanel sosteneva che la moda, essendo questione di proporzioni, è architettura. In effetti, che moda e architettura siano fatte per dialogare tra loro lo dimostrano sempre più spesso i grandi gruppi del lusso che – in ottica di mecenatismo, oltre che di interesse – commissionano alle cosiddette archi-star non più solo negozi, ma anche uffici, centri produttivi e spazi culturali in tutto il mondo. Stilisti e architetti, a ben vedere, sono proprio coloro che sanno intercettare meglio i cambiamenti dei luoghi, che siano corpi o città. Ormai è folto il parterre degli autori che hanno dedicato riflessioni e libri al rapporto fra le due discipline, da Gisella Giammaresi a Brooke Hodge, da Bradely Quinn a Helen Castle e Martin Pawley. Ora è arrivato fresco di stampa l’intrigante “Louis Vuitton Architecture and Interiors” (di Mohsen Mostafavi, Fréderic Edelmann, Ian Luna, Rafael Magrou) che racconta la collaborazione della maison francese con i più visionari maestri dell’architettura: Peter Marino, Shigeru Ban, Zaha Hadid, Jun Aoki, Kumiko Inui. Il citato Peter Marino è anche l’artefice della Maison Etoile a Roma, in apertura a Gennaio, che recupera i vecchi locali di un cinematografo, puntando a farne un polo culturale di grande attrazione per valori non meramente estetici. La genesi del desiderio di lusso passa anche di qui.
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La primavera del Metropolitan Museum of Art di New York sarà all’insegna della moda, proponendo un omaggio a due stiliste italiane che, seppur distanti cronologicamente tra loro, si sono caratterizzate per una forte carica innovativa ed un coraggio pioneristico esemplare. “Elsa Schiaparelli e Miuccia Prada: On Fashion” – così si intitola la mostra che aprirà i battenti il 7 Maggio 2012 – mira a confrontare dialetticamente due personalità altamente creative della moda italiana fattasi globale, articolandosi in un percorso segnato da 80 bozzetti della Schiaparelli (dagli anni ’20 ai ’50) e modelli d’archivio di Prada (dagli anni ’80 ad oggi), passando per i temi dell’arte, della politica, della condizione della donna. La rassegna, il cui allestimento sarà eseguito dal regista di “Moulin Rouge” Baz Luhrmann, avrà come curatori Harold Koda e Andrew Bolton, i quali cercheranno di evidenziare il comune gusto per la sperimentazione delle due stiliste, nonché la loro visione estetica alternativa, che molto ha attinto al pozzo delle avanguardie delle rispettive epoche: in primis Cocteau e Dalì per Elsa Schiaparelli (da cui l’ispirazione per il cappello a foggia di scarpa o l’abito con i cassetti) e la poliedricità del postmodernismo per Miuccia.