Come “fare le scarpe” ai Cinesi. Le nuove frontiere del marketing per il made in Italy
Il futuro dei beni made in Italy, moda compresa, sembra risiedere nella capacità di differenziare facendo leva sul potere di creare valore per il consumatore mediante un’azione sinergica che tocchi, oltre al design, la funzionalità ed il processo produttivo.
La frontiera più recente è segnata dalla capacità di creare un’esperienza di marca che tocchi il compratore. Oggi il cliente pretende di essere sedotto, emozionato, sorpreso e l’emozione è qualcosa di profondamente personale che impone alle aziende una conoscenza più diretta del loro mercato.
Si fa un gran parlare, da qualche anno in qua, di imprese asiatiche, soprattutto cinesi, che praticano una concorrenza scorretta nei confronti delle aziende occidentali, incluse quelle del lusso. Nel caso del settore calzaturiero, ad esempio, si è assistito ad una vera e propria invasione commerciale che ha spinto la Commissione Europea ad introdurre misure antidumping in via provvisoria.
Sono molti i comparti in cui la produzione “gialla” si sta sostituendo alla nostra e, poco alla volta, si viene a sfatare un vecchio mito: quello per cui i Cinesi sanno produrre solo articoli di qualità bassa. In realtà, si osserva come la crescita dei volumi sia sempre più accompagnata da un aumento del livello qualitativo dei prodotti. Merito anche del supporto fornito dai costruttori italiani di macchinari, che nell’ultimo decennio hanno prestato molta attenzione ai mercati ad est, con un ausilio tecnologico ineccepibile, che ha ulteriormente contribuito ad abbattere i costi.
A prescindere dalle considerazioni che si possono tracciare circa la reale efficacia di misure protezionistiche come quelle invocate ed adottate in ambito comunitario, per le nostre imprese la via verso un recupero di competitività sembra passare imprescindibilmente tramite il ripensamento del modello di business ed un’innovazione a 360 gradi. Valga per tutti il caso esemplare di Geox, l’azienda veneta nota per l’ideazione della “scarpa che respira”, la quale ha delocalizzato alcune attività produttive nell’Est europeo e puntato con vigore sull’internazionalizzazione, al di là del mero export. Ma potremmo citare, sempre per restare nel campo delle calzature, pure Nike, che ha lanciato progetti di nuova concezione, semplificando il processo produttivo: scarpe con elevato contenuto di design che possono essere realizzate in mini-fabbriche e quasi assemblate nel retro del negozio dove avviene la vendita.
Euroshoe, invece, ha pensato bene di produrre scarpe su misura con un approccio di mass customization, puntando alla massima soddisfazione del cliente e, nello stesso tempo, all’eliminazione delle inefficienze distributive.
In pratica, il futuro dei beni made in Italy, moda compresa, sembra risiedere nella capacità di differenziare facendo leva sul potere di creare valore per il consumatore mediante un’azione sinergica che tocchi, oltre al design, la funzionalità ed il processo produttivo.
Va detto, comunque, che restano sempre stile, alta qualità e flessibilità i tre elementi che fanno del prodotto italiano qualcosa di unico, desiderato ed apprezzato in tutto il mondo. La competitività delle aziende di fronte alla concorrenza mondiale si gioca, allora, sul terreno della loro valorizzazione, come dimostrano le varie indagini condotte incrociando i parametri dell’immagine, della qualità, del prezzo e del servizio. Ne emerge che le imprese italiane spaziano dal brand di lusso (forte contenuto di know-how, massima attenzione alla qualità) alla griffe trend-maker (evoluzione continua del prodotto, alto contenuto emozionale del marchio), dal fashion accessibile (prezzi e servizi competitivi) al pronto moda (alta velocità, buon rapporto moda/prezzo), dal basic di massa (dimensioni di scala) al value for money (competitività di costo).
Dall’analisi del posizionamento delle aziende di gioielleria appare evidente che, rispetto ai concorrenti, solo le imprese che puntano ad un’immagine di qualità elevata e grande capacità innovativa risultano avvantaggiate. Ciò che conta, per vincere, è che le aziende facciano scelte coerenti e valorizzino i contenuti di stile, qualità del prodotto e flessibilità della filiera produttiva.
Intanto, come si nota anche nei settori di punta del lusso, i prodotti sono sempre più copiati e passano rapidamente di moda, la tecnologia si acquista, così come le buone location e i bravi manager. Un marca forte ed appetibile rappresenta, allora, per le imprese che fanno del sogno la propria selling proposition, una risorsa strategica.
In Italia la “passione” per il brand è iniziata a diffondersi alla fine degli anni ’80, con il passaggio delle aziende di moda da mono-business a multi-business. Per dare senso alle tante occasioni d’uso e merceologie trattate (occhiali, profumi, accessori, gioielli, sportwear, ecc.), la marca doveva costituire ben più di un’etichetta, trasformandosi in un’area di gusto, in un sistema di valori e garanzie, in un mondo! E per creare tale valore intangibile è stato necessario sviluppare notevolmente la comunicazione.
Molte cose sono successe da allora: la comunicazione si è fatta sempre più omologata (stessi linguaggi e contenuti) e autoreferenziale. Il prodotto ha visto ridursi il suo ciclo di vita ed ha perso centralità rispetto al vecchio/nuovo protagonista dei nostri tempi: il negozio. Proprio, dalla distribuzione, in effetti, arrivano i più freschi protagonisti del fashion. In un mercato sempre più popolato e complesso, per farsi ascoltare occorre alzare la voce, ma soprattutto dire qualcosa di diverso e di innovativo a clienti che pretendono sensazioni decise.
Oggi il cliente pretende di essere sedotto, emozionato, sorpreso dalle marche e l’emozione è qualcosa di profondamente personale che impone alle aziende una conoscenza più diretta del loro mercato. Dopo le fasi del prodotto e della comunicazione, quindi, si è aperta una terza fase nello sviluppo delle marche di moda: la fase dell’esperienza (secondo quanto teorizzato da Bernd Schmitt).
Creare un’esperienza di marca comporta per le aziende di saper manovrare molte leve contemporaneamente: prodotto, assortimento, negozio, comunicazione, servizio. Per chi ha compreso queste evoluzioni, il branding ha subìto una metamorfosi: da monologo tra impresa e mercato a dialogo tra l’impresa ed i suoi clienti. Un dialogo che parte dal negozio, il nuovo prodotto della moda, l’unico dal quale si può creare un’esperienza.
Anche il ruolo della comunicazione, nel frattempo, è cambiato: attraverso di essa, la marca racconta una storia che parte dal passato (“l’eredità del marchio”, per chi la possiede), è ambientata nel presente (i prodotti, le pubbliche relazioni, i testimonial) e guarda al futuro (la ricerca, i progetti non profit in campo artistico o sociale supportati dalla marca).