Giovani e gioielli
Proviamo a cercare in Internet qualche sito dedicato ai giovani, oppure a lieti eventi come battesimi, compleanni, lauree, ecc. Vi troveremo innumerevoli pubblicità di discoteche, di animatori di feste, di società di catering, di abbigliamento e accessori. Raramente ci imbatteremo in gioielli. Altrettanto di rado nelle trasmissioni televisive per bambini e in quelle cosiddette “giovanilistiche” – laddove si parla di temi come moda, viaggi, svaghi e tempo libero, con tanto di sponsor ad hoc – ci capita di cogliere un benché minimo riferimento ai gioielli.
Eppure ai giovani, dai bambini agli adolescenti ai trentenni che ancora vivono in famiglia, i gioielli piacciono, eccome, e quando il loro “verbo” viene veicolato nelle forme e nei modi adeguati funziona alla grande. Si pensi, solo per citare un esempio da manuale, al successo perdurante del Dodo di Pomellato, che dal 1994 ha conquistato il target giovane con una comunicazione “giusta”, una distribuzione “giusta”, una forma-formula “giusta”, un prezzo “giusto” e, soprattutto, un mondo di valori più che “giusti” (ambientalismo, simpatia, tenerezza, amicizia, ecc.).
Purtroppo il settore orafo non ha ancora ben compreso che i consumatori vanno “fidelizzati” ed “educati” (ci si perdoni quel po’ di inevitabile cinismo sottostante a questi verbi) fin da piccoli a conoscere ed amare i preziosi. Oltretutto, il loro è un mercato potenziale enorme in termini sia qualitativi sia quantitativi. In effetti, il numero di giovani è oggi inferiore a quello degli anni del baby-boom, ma le cifre che per loro si è disposti a spendere sono di gran lunga superiori, ed essi stessi sono propensi ad utilizzare i loro risparmi per acquistare gioielli per sè o per regali ad altri. Lo dimostrano le indagini condotte a più riprese negli ultimi anni da istituti di ricerca specializzati e da autorevoli testate giornalistiche, i quali sottolineano quanto sia indispensabile trasformare i gioielli in “segni di identificazione” attraverso cui bambini e ragazzi possano comunicare fra loro, così come già fanno mediante la musica, la moda, i giochi. Quindi, gli orafi dovrebbero sforzarsi di più di conoscere il mondo giovanile, i suoi valori ed esigenze. Potrebbero così scoprire che i gioielli sono sempre più amati dai ragazzi, oltre che nelle ricorrenze tradizionali, anche a fine anno scolastico e che sono sempre più svincolati dal fattore “investimento”, ovvero si privilegiano gioielli ready to wear rispetto a monili più importanti da portare negli anni futuri. Poi, magari, potrebbero apprendere come, crescendo, i bambini spostano i loro gusti in fatto di gioielli (dagli orecchini ai braccialetti alle collane agli anelli).
Qualche anno fa il sociologo Enrico Finzi, a cui il Club degli Orafi Italia aveva commissionato un’indagine sul rapporto tra giovani (14-24 anni) e gioielli, evidenziava come i fattori che maggiormente “intrigano” i ragazzi sono l’aspetto estetico e le valenze affettive di cui si carica il prezioso. In altre parole, i giovani non sono particolarmente interessati alla manifattura, alla lavorazione, al costo ed alla questione della sicurezza, ma sono oltremodo attenti e sensibili al design, all’originalità ed all’innovazione. Un requisito per loro ineludibile, inoltre, è l’indossabilità del gioiello, che deve essere pratico, fruibile in ogni occasione, portatore di emozioni, accessorio simbolico, distintivo, personalizzante e omologante nello stesso tempo. I giovani, poi, sono i più suggestionabili dalla pubblicità in fatto di preziosi, così come sono influenzabili per i prodotti alternativi/rivali dei gioielli (viaggi, abbigliamento, elettronica, ecc.). Ma sono i gusti personali, più che la moda, i media o il tam tam, a decretare le loro scelte.
I giovani, comunque, si configurano come una galassia “camaleontica”, difficile da catalogare e, proprio per questo forse, ancora da inventare, anticipare, incontrare. In definitiva – fa notare Finzi – le nuove generazioni possiedono più gioielli pro-capite degli adulti, anche se di valore nettamente inferiore; sono più orientati ai gioielli in platino ed oro bianco, mentre fra le pietre preziose prediligono il diamante; sono i massimi utenti della portabilità quotidiana del gioiello e dell’accessibilità di prezzo e di distribuzione; sono più inclini ai gioielli unisex e bisex; sono i più orientati alla marca ed alla possibilità di identificarsi con un personaggio beniamino che dei gioielli fa il proprio tratto connotante (si pensi al successo che cominciarono a riscuotere i braccialetti col nome inciso dopo che rockstar come Noel Gallagher e Richard Ashcroft si mostrarono con esemplari al polso). Un altro aspetto poi ci sembra di non secondario rilievo: i giovani chiedono che le aziende orafe mantengano un rapporto costante col loro mondo per intercettarne le tendenze emergenti, quindi soddisfare le loro aspettative ed i loro bisogni. Nello stesso tempo, gli operatori orafi dovrebbero preoccuparsi di aggiornare i ragazzi sulle novità del mercato, ad esempio mediante articoli inseriti in giornali destinati ai giovani e con modalità innovative di comunicazione (Cd Rom, Internet, operazioni di co-marketing con altri produttori di articoli per adolescenti come moto, accessori di moda, parchi di divertimento, concerti pop/rock, eventi sportivi, più massiccia presenza in programmi televisivi e radiofonici seguiti da ragazzi, ecc.). Ma dovrebbero anche tentare di avvicinare maggiormente i giovani al processo di lavorazione dei preziosi, eventualmente attraverso visite guidate a laboratori ed iniziative simili. Infine, la nota prezzo: campagne promozionali e condizioni agevolate di pagamento apposite per i teenager sarebbero più che gradite.
Per quanto riguarda i più piccoli, invece, la situazione è un po’ più difficole da analizzare e valutare; colpisce, però, il fatto che i dettaglianti orafi lamentino una certa carenza nell’offerta: troppo poche le novità da proporre, forse per la (errata) convinzione che per i gioielli da bambini si voglia spendere poco. Se i braccialettini, i pendentini, le spilline, le croci e le medagliette, gli anellini, gli orologini, le penne fossero abbastanza attraenti ed innovativi, ossia creativi ed alternativi (“un po’ più vivaci e diversi dal solito, magari firmati” chiedono gli acquirenti intervistati) se ne venderebbero ancora di più. Molto dipende anche dal livello culturale (prima ancora che economico) delle famiglie e qui ci riallacciamo al discorso iniziale sulla “educazione”. Insomma, per concludere, pare proprio che i giovani in fatto di preziosi abbiano le idee più chiare dei “grandi” e siano più desiderosi e aperti a conoscere il mondo orafo di quanto questo lo sia nei loro confronti. Vogliamo rimediare?
W L’AZIENDA CHE SA PARLARE COI BAMBINI
Negli ultimi anni da parte delle aziende sono state commissionate agli esperti innumerevoli ricerche sull’infanzia e, in particolare, sulle capacità dei bambini di interpretare i messaggi veicolati dai brand, capacità che, a quanto pare, si sviluppano prestissimo. Ciò deriva dal riconoscimento del ruolo sempre più rilevante del target giovane e dalla conseguente necessità di adottare nuove strategie di marketing sofisticate ed efficaci.
In pratica i bambini, al pari degli adulti, sono ormai avvezzi a vivere il mercato – con i suoi prodotti e servizi, le sue promesse ed illusioni, i suoi luoghi ordinari e magici – come risorse culturali, veri e propri mezzi ad elevato valore simbolico.
Essendo nati in una società consumistica, i bambini sono abituati a riconoscere i valori dei marchi, a considerarli come parte della cultura popolare in cui costruiscono la propria identità. Nondimeno, essi continuano a mantenere quella capacità innata ed istintiva di manipolare e de-costruire i messaggi, di staccarsi e proiettarsi lontano dalle proposte commerciali. Anche le reazioni di ribellione e trasgressione nei confronti degli adulti possono leggersi come ricerca da parte loro di uno spazio indipendente nei confronti di un mondo mercificato che ai ragazzi non concede sufficiente potere simbolico, di definizione e di auto-affermazione.
Nel frattempo, essi maturano quella che può essere considerata una forma embrionale di “consumer agency”, ossia capacità di autonomia consapevole delle proprie scelte di consumo verso il potere delle imprese. E se la cultura consumistica rappresenta la loro arena, essi useranno tale risorsa per edificare la propria personalità, mattone su mattone.
Permettere ai piccoli di appropriarsi liberamente e spontaneamente dei significati simbolici creati dal mercato e fornire spazi di manipolazione delle espressioni materiali della nostra cultura può costituire, allora, una via produttiva anche per le aziende che domani dovranno sostenere uno scambio dialettico con questi “difficili” consumatori.