LOLITA e/o l’AMERICA
Esattamente 50 anni fa, nel 1962, usciva il film di Stanley Kubrick tratto dal libro-scandalo di Vladimir Nabokov – “Lolita” – pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1955 in un’edizione quasi clandestina.
Caso letterario clamoroso, è il racconto del morboso rapporto tra il quarantenne Humbert Humbert e la dodicenne Dolores Haze, soprannominata Lolita. Fu comunque Kubrick, più che Nabokov, a costruire il mito erotico della ninfetta americana, che tanta influenza ebbe sulla moda e sul costume occidentale. Lo stesso lancio della pellicola fu accompagnato da un’operazione di co-marketing ante litteram con lo stilista francese Jean Dessès, il re dello chiffon, il cui profumo “Celui” venne donato alle spettatrici nelle sale cinematografiche. Ma questo film stimolò soprattutto i grafici editoriali, innescando una corsa senza freni a copertine sempre più allusive, dal design focalizzato sugli archetipi del maschio seduttore e della femmina adolescente.
Così, se le prime vesti editoriali non attribuiscono un volto preciso a Lolita, dopo la trasposizione del libro sul grande schermo (con protagonista Sue Lyon ) l’ambigua teenager col leccalecca e i calzettoni bianchi comincia ad assumere una sua immagine precisa. Fino alla vera svolta nel 1980, quando Mondadori bandendo ogni pruderie mette in copertina la sensuale “Ragazza con gatto” del pittore Balthus, che rende il particolare momento di transizione dal mondo innocente dell’infanzia a quello adulto smaliziato.
Infine, con le edizioni Adelphi degli anni ’90, la cui cover parla un linguaggio decisamente polisemico, si conclude la metamorfosi di Lolita da ninfetta emblema della decadenza dei valori contemporanei a moderna “Ninfa, uno di quegli esseri quasi immortali che furono i primi ad attirare il desiderio degli Olimpi verso la terra e a invadere la loro mente con la possessione erotica” (così recita la copertina).
In effetti, nelle intenzioni di Nabokov, russo di nascita e americano per scelta, Lolita si identifica col Mito a stelle e strisce. In questo senso il suo è un romanzo “casto”, che lungi dall’essere una critica all’America vuole riscoprire in essa mitiche suggestioni. L’intuizione centrale del libro, infatti, è quella della bambina-donna che torna costantemente d’attualità. Nabokov non ha inventato Lolita, bensì ha ricreato un’antica perversione umana ambientandola nel Paese dove la produzione seriale della bellezza espone la donna e in particolare l’adolescente ad un consumo precoce. Nel mondo di Hollywood le ninfette già esistevano e lo scrittore non fa che riscoprirle, facendone emergere le caratteristiche di capricciosità, torpidezza, immoralità. Ecco perché la sua Lolita appare così scevra di virtù, incline a coltivare solo passioni vane, dai fumetti ai vestiti nuovi, dai dolciumi ai divi del cinema, assumendo persino connotati diabolici nel suo look apparentemente pulito (i capelli ben lavati, i calzini bianchi…), contrastante con l’odissea psicologica dell’intellettuale Humbert che sconta il suo sogno impossibile di felicità con l’inferno interiore, fino a trasformarsi in un assassino.
Quindi, se Nabokov con Lolita ha inteso scrivere un romanzo a suo modo “etico” che mostra la degradazione della donna moderna destinata ad incarnarsi o nella ragazzetta sgualdrina o nella vanitosa e vorace madre di lei, Kubrick ha voluto porre l’accento sulla provocante sensualità della bambina americana che scatena nell’ingenuo maschio europeo un delirio di idolatria e voyeurismo. La moda ha più attinto alla visione scandalosa di Kubrick che all’idealità inquieta di Nabokov, ignorando con eccessiva superficialità che “il peccato non rende l’uomo libero”.