Moda ed Etica: un rapporto sempre più cool
Fu l’economista americano Premio Nobel Milton Friedman a descrivere, negli anni ’70, quella che per quasi un quarto di secolo si impose come la filosofia affaristica dominante: le imprese hanno un’unica responsabilità e questa consiste nel fare profitti. Tuttavia lo stesso Friedman nei suoi articoli sul “New York Times” ebbe anche ad affermare che, oltre al profitto, il business dovrebbe perseguire un codice morale.
Nei medesimi anni si alzarono poi altre voci a favore del movimento della “Corporate Social Responsibility” (CSR), in particolare da parte di K. Davis e R. Blomstrom che dichiararono: “La responsabilità sociale è un dovere di chi assume decisioni operative, in ottica di proteggere e migliorare il benessere della società unitamente ai propri interessi”. In altri termini, il profitto è un bene, ma è ancora meglio quando reca vantaggi a tutti gli attori sociali coinvolti.
Sono passati quasi quarant’anni da allora ed oggi la CSR investe pienamente il ruolo che il settore moda ha nel promuovere lo sviluppo sostenibile della società e dell’economia nei Paesi nei quali si sviluppa, in particolare quelli meno privilegiati, dove le materie prime sono prodotte.
Le aziende del lusso e della moda, però, sembrano un po’ in ritardo rispetto a quelle di altri settori sul fronte della responsabilità sociale d’impresa. La causa è da ricercarsi in modelli di comunicazione e di consumo basati sulla costruzione del sogno del brand e sulla partecipazione del consumatore ad un immaginario “aspirazionale” nel quale le componenti sostanziali sono secondarie rispetto a quelle emozionali. Di recente, comunque, la crisi economica ha dato un’accelerazione al dibattito sulla CSR, intesa come attenzione al complesso degli stakeholder, alla difesa dell’ambiente e della salute, alla trasparenza ed all’etica delle condizioni produttive. E’ in pieno corso un’autentica “rivoluzione” del sistema di valori nelle maggiori imprese della moda/lusso, dove le strategie competitive stanno ridando centralità alla qualità e all’innovazione di prodotto e si sta diffondendo una consapevolezza sulle tematiche della tracciabilità, della salvaguardia ecologica, della sostenibilità dei processi aziendali. Per le aziende italiane il recupero di una focalizzazione sul prodotto e sui processi di design, industrializzazione e produzione risulta di fondamentale importanza per la competitività: il nostro Paese, in effetti, è l’unico del mondo occidentale in cui è sopravvissuto un sistema industriale/artigianale articolato che lavora non solo al servizio dei brand nazionali, ma anche delle principali maison internazionali. D’altra parte, il genius loci, oltre a incorporare un know how esclusivo, rappresenta anche un valore aggiunto d’immagine, e il successo in Borsa di Ferragamo, Prada e Brunello Cucinelli – tutti marchi fortemente radicati nei rispettivi territori – ne è la testimonianza.
Specialmente il caso di Cucinelli è la dimostrazione tangibile di come nelle aziende del lusso stia facendo breccia una nuova concezione sul ruolo imprenditoriale, in cui si fondono responsabilità sociale ed etica: una visione che si basa sulla continua ricerca di un contemperamento degli interessi fra tutti gli attori che direttamente e indirettamente contribuiscono all’esistenza dell’azienda, non solo azionisti e manager, ma anche dipendenti e collaboratori, clienti, fornitori, cittadinanza locale, istituzioni pubbliche.
L’esperto di management della moda e del lusso Salvo Testa, docente alla SDA Bocconi, ha giustamente osservato: “Le aziende italiane della moda e del lusso sono le meglio attrezzate, rispetto a quelle di altri paesi maturi ed emergenti, per perseguire tale modello di lusso responsabile ed etico, perché i valori che ne stanno alla base, seppure fossero ultimamente sopiti, fanno parte del loro dna storico, sviluppatosi nelle comunità sociali, culturali ed economiche dei distretti industriali. È quindi un buon segno che oggi si riprenda a parlare di Made in Italy (magari riconsiderando strategie di delocalizzazione produttiva motivate da ragioni di puro risparmio di costi) e anche di etica dell’impresa. Se in passato le finalità economiche e quelle sociali erano considerate in conflitto, tanto da giustificare in nome del profitto comportamenti delle imprese moralmente discutibili, oggi pare che tale trade-off possa essere colmato. D’altra parte è evidente che una maggiore attenzione a tutti gli stakeholder dell’impresa produce migliori performance economiche, specie nel medio lungo termine: ciò attraverso il rafforzamento della reputazione dell’azienda (brand equity e brand loyalty), il maggiore coinvolgimento e fedeltà dei propri dipendenti, il rafforzamento della capacità innovativa, la propositività dei fornitori e partner nella filiera, lo sviluppo di un clima positivo da parte delle comunità locali e della società in generale, un rapporto di fiducia da parte dei media e dell’opinione pubblica”.
In sintesi e in conclusione, oggi la moda etica è più cool e redditizia che mai.