Moda oggi: identikit di un mutante
E’ il post-moderno, bellezza, e tu non ci puoi fare niente! Mi è scappata la parafrasi della celebre battuta di Humphrey Bogart in “L’ultima minaccia”, per introdurre il tema del dove è arrivata al giorno d’oggi la moda (e i modi) come riflesso delle pulsioni della nostra società ultra-capitalistica (Dorian Gray e il suo ritratto?).
Mi colpisce sempre più, innanzitutto, il paradosso dell’immensa proposta di identità che la moda offre, nello stesso tempo annullandole, proprio perché tante/troppe (anche la deriva semantica dell’etichetta “lusso” ha contribuito non poco a tale cannibalismo). Ne consegue pure il venir meno del senso in un mondo che, vorticosamente proiettato al futuro obtorto collo, non guarda più alle sue origini con consapevolezza civile e morale. Sedotti dalla fata morgana di un superfluo infinito, di un “bling-bling” incessante, pochi – siano essi insider o consumatori – mettono in discussione la prosopopea (quella che i Greci chiamavano ùbris, tanto invisa agli dei olimpici, ormai detronizzati dagli stessi fashion guru) che alligna tra le righe dei bilanci siderali del sistema moda planetario. Prendo a prestito dal sociologo Gilles Lipovetsky le parole per definire la moda: “un modo per perpetuare una forma di pensiero mitico nel cuore delle culture mercantili e desacralizzate”.
Ma resta ancora qualcosa di mitico nella moda d’oggi?
Per fortuna la risposta è affermativa, e il merito è anche di noi italiani, che sovente sappiamo capire gli umori stilistici e, soprattutto, l’importanza degli aspetti teorici e culturali che stanno dietro la spettacolarità della moda (da molti considerata l’unico magnete di questa grande industria).
Così, se da anni alcune produzioni si collocano decise sul fronte conformista e scolastico, non rischiando nulla in guizzi o divagazioni e indulgendo alla memoria sul crinale fra creatività e sistematicità (scelta che non stigmatizzo, sia chiaro), altre hanno scelto di collocarsi nello sperimentalismo individuale, che asseconda le contaminazioni coinvolgendo anche i materiali (sempre più ibridi e tecnologici fino al virtuosismo: in ottica non tanto estetica, quanto funzionale e salutistica). Una tendenza che su entrambe le rive si è ormai consolidata è comunque il rifiuto dell’omologazione e dell’estetica globale, la voglia di recuperare il valore del lavoro artigianale, personalizzato, in cui il dettaglio conta. Mi chiedo, a questo punto, se in un futuro non lontano cadrà la parete, già parecchio assottigliata, che divide prêt-à-porter e haute couture…
Tutti si muovono pur sempre in una galassia di riferimenti culturali precisi, perfino iconografici, senza più aspirare ad esporre qualcosa di veramente nuovo sotto il sole (complice la crisi economica mondiale che ha pervaso di incertezza ogni ambito?).
Non avrei immaginato, solo qualche anno fa, che l’avanguardia dello stile sarebbe tornata a rivalutare modelli tradizionali (diciamo pure borghesi) di gusto sobrio e leggero, a recuperare la precarizzata identità maschile, a riscoprire il valore dell’eleganza. E pensare che quegli stilisti, in nome di una spontaneità ormai impossibile, avevano decostruito il mondo, per raccontarne a brandelli il disagio, femminilizzandolo e sdoganandolo sessualmente (chi non ricorda certe immagini pubblicitarie shock, ambientate in luoghi squallidi popolati di ambigue creature in apparenza dissociate mentali, sciattamente vestite?).
Da qualche tempo in qua, sulle passerelle mi pare tornata la fisicità autentica: uomini che non sono più la parodia di un maschio immaginario e donne che non giocano ancora ad interpretare una Lolita in preda a lune esistenziali.
Di questo, forse, ha davvero bisogno la moda: mutare angolo di visuale, capovolgere la prospettiva, senza mantenere intatte modalità e liturgie, facendo finta che tutto sia sempre uguale. Agli stessi membri dell’establishment si richiede questo sguardo funambolico, perché non appaiano più divisi fra irrisolte tensioni, incerti perfino su chi sia l’interlocutore a cui desiderano piacere di più.
Lo stesso dicasi per l’apparato mediatico che, mentre continua ad enfatizzare opulenza e sogno, non può più esimersi dall’ignorare “the dark side of the moon”: gli spetta di approfondire non solo gli aspetti legati all’economia del fashion business, ma anche e soprattutto (e sempre più) quelli relativi all’etica ed all’inclinazione del gusto in senso socio-culturale.
Concludo dicendo che la “macchina” della moda, ingigantitasi in pochi decenni e divenuta troppo autoriferita, insensibile alle nuove istanze e ad eventuali forme di dissenso, sta finendo per tradire l’idea di sé come organismo flessibile e aperto. Il rischio, tanto più ora che il dissesto internazionale l’ha resa più vulnerabile, è quello di perdere il controllo di questa stessa macchina (con poche leve di comando) lanciata a velocità eccessiva. Decelerare, del resto, potrebbe causare la fine per molti. Quid tum? Come uscire da questo status ansiogeno?
Ascoltare il respiro del mondo con più sensibilità, rileggere la propria storia e ponderarla alla luce dei propri ideali di uomini e di professionisti, con occhi diversi, per continuare ad immaginare una continuità nell’innovazione.
Buon Rinascimento, moda!