Le origini della nostra Pasqua
– La Pasqua ebraica, il Pesach di Liberazione, si celebra con i solenni riti della notte che precede l’Esodo dall’Egitto, i quali ricordano il “passare oltre” dell’Angelo di Dio davanti alle porte segnate con il sangue dell’agnello sacrificato. Comunque, la genesi della Pasqua è legata ad un antico rito di popolazioni semitiche nomadi che praticavano la transumanza delle greggi. Questa aveva luogo proprio in primavera, allora scandita sul calendario lunare, e per tale ragione la data pasquale era vincolata alla fase di luna piena primaverile (ancor oggi la Pasqua cade la prima domenica dopo il plenilunio di primavera). Si trattava, in sostanza, di una festa pastorale, ciclica e naturalistica, e come tale è filtrata nella tradizione ebraica (quindi nella nostra, tramite il Cristianesimo). Infatti, nel libro biblico dell’Esodo si citano vari elementi legati all’arcaico rito della transumanza: il pane azzimo, l’agnello sacrificale, il sangue asperso sulle porte delle case. Presso gli Ebrei la Pasqua si trasforma così da solennità stagionale in occasione commemorativa della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Con il corpo ed il sangue di Gesù (l’ostia ed il vino, ovvero il pane azzimo ed il vino del calice presenti nella simbologia ebraica), si afferma la nostra Pasqua, che ha nell’Ultima Cena il suo punto di origine e, nello stesso tempo, di svolta. I segni antichi, per mezzo di Cristo, alludono al suo sacrificio ed alla sua presenza perenne nella storia. Non siamo più davanti, pertanto, ad una nuova liberazione dalla schiavitù, ma dal peccato e dal male.
– L’usanza rituale della Via Crucis risale all’epoca successiva alle Crociate, quando i pellegrini si recavano in Palestina a ripercorrere la drammatica via affrontata da Gesù sotto il peso della croce. Ovviamente non tutti potevano raggiungere la Terra Santa, per cui si decise di commemorare la passione di Cristo anche nei nostri Paesi, seguendo un cammino illustrato con le varie stazioni dell’iter di Gesù.
– Nel tempo pasquale di un anno imprecisato fra il IV e il V secolo Sant’Agostino, il grande filosofo e Padre della Chiesa, recitava un sermone (contenuto in un manoscritto scoperto solo di recente da studiosi austriaci) dedicato al battesimo, un tempo impartito durate la veglia del Sabato Santo, ed alla risurrezione dei morti, nel quale esortava: “Credi ciò che ancora non vedi! Che farai di straordinario, se crederai solo dopo aver visto?”. In un altro richiamo, invece, il vescovo d’Ippona invitava i fedeli a non ubriacarsi durante le cerimonie religiose. Non stupiamoci troppo di ciò: basti pensare che ancora oggi in tante parti d’Italia la Pasqua è un’occasione per esuberanze di ogni tipo, dalle grida ai mortaretti, dai balli alle bevute.
– La Pasqua, in effetti, è una delle poche feste cristiane a cui è associato il riso (la parola “ridere” ricorre rare volte nelle Scritture e la tradizione vuole che Gesù non abbia nemmeno mai sorriso). L’evangelista Luca esalta la gioia pasquale che pervade gli Apostoli, da cui discendono, soprattutto nel Medioevo, quelle celebrazioni della Risurrezione degeneranti in un’allegria addirittura sgangherata, con mimi, scenette ed interludi venati di oscenità (vedasi il Risus paschalis). D’altra parte, il ritratto di un Gesù serio tratteggiato dall’iconografia classica (per arrivare al pasoliniano “Vangelo secondo Matteo”) è da associare alla sua immagine di uomo/Dio schernito durante la Passione, quindi umiliato e sofferente: un mistero prima psicologico che teologico.
– La liturgia pasquale è particolarmente sentita anche da chi abbia una visione completamente laica del mondo. Scriveva il poeta Blaise Cendrars in “Pasqua a New York” nel 1912: “Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà, / per vedere l’irradiarsi della tua Bellezza… Signore, sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori. / Penso ai due ladroni ch’erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati… Signore, sono troppo solo. Ho freddo. Ti invoco”.
E Fabrizio de Andrè in “Tre madri” fa dire alle mamme dei due “ladroni” Tito e Dimaco, rivolte a Maria: “Lascia a noi piangere un po’ più forte / chi non risorgerà più dalla morte”. A cui la Madonna risponde: “Piango di lui ciò che mi è tolto, / le braccia magre, la fronte, il volto, /… Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio”.
– Un tempo, i rami di ulivo benedetti nel periodo pasquale trovavano impiego durante tutto l’anno con funzione apotropaica (si legga: scongiuri). Si pensi al rito arcaico delle “Rogazioni” (invocazioni), oscillante fra sacro e profano, ben radicato nei paesi di campagna. Per tre giorni, dal 23 al 25 Aprile (S. Marco), all’alba i contadini si avviavano in processione nei campi, intonando le litanie dei Santi e chiedendo protezione contro la grandine, la siccità, i parassiti delle coltivazioni. E il prete ogni volta impartiva la benedizione ai terreni con l’acqua santa. Le donne in corteo, nel frattempo, tenevano in seno i semi dei bachi da seta, perché ottenessero anch’essi la tutela divina. A conclusione delle cerimonie, i contadini fissavano all’angolo di ogni campo una croce rudimentale per invocare un’annata favorevole e deponevano un ramo d’ulivo sui filari come deterrente contro le tempeste. Guai se, in seguito, la croce fosse caduta, annuncio di disgrazia!
Questo singolare rito, che si svolgeva ad un’ora così ingrata (in genere alle 5) per consentire poi ai contadini di recarsi al lavoro per tempo, è associato a San Marco probabilmente perché questo martire era considerato fautore dei raccolti abbondanti (le sue reliquie erano state trafugate da Alessandria d’Egitto, nascoste in un paniere, da parte di due mercanti veneziani).