Sulle ali della Gentilezza
La gentilezza, affermò l’imperatore-filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità.
Etimologicamente essere gentile significa riconoscersi parte di un gruppo: non a caso il vocabolo deriva dal latino gens, ovvero la famiglia in senso allargato, che comporta obblighi scambievoli di aiuto e protezione. La gentilezza è un valore lieve, pacato e discreto, che non si esaurisce nelle “buone maniere”, ma si sostanzia nella capacità di porsi all’ascolto degli altri, di essere generosi ed altruisti, di aiutare ed amare in particolare chi ha bisogno. E’ insomma un atteggiamento mentale che rende la vita degna di essere vissuta! Anche perché la gentilezza è molto appagante, è un piacere che ci fa sentire bene, una garanzia di felicità personale. Vale la pena dunque chiedersi se oggi siamo ancora capaci di essere gentili, poiché francamente abbiamo l’impressione che la scortesia stia dilagando ad ogni livello. Basti pensare che i giovani italiani detengono l’assai poco invidiabile primato della maleducazione a livello europeo, in base ad una ricerca condotta tra gli albergatori del Vecchio Continente.
In effetti, negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un crescente interesse da parte di studiosi, associazioni, intellettuali di matrice diversa nei confronti di questa dote a rischio di estinzione: si va dall’ente italo-svizzero Gentletude (gentletude.com) al Movimento italiano per la gentilezza (gentilezza.org), dalle mostre ai libri, dai corsi ai concorsi, dalle campagne pubblicitarie ai convegni per analizzarne le infinite sfaccettature e promuoverla in ogni ambito. Esemplare è il libro “Elogio della gentilezza” di Barbara Taylor e Adam Phillips (Ponte alle Grazie), che non solo cerca di recuperare l’antidoto ad una società sempre più cinica, competitiva, nichilista, ma con ottimismo e piglio costruttivo ci aiuta a scoprire i segnali che la nostra mente ci invia e che spesso trascuriamo, tra cui il bisogno di mitezza, cordialità, nobiltà d’animo: è il nostro stesso io che dal profondo ci chiede di essere gentili, cioè più pienamente umani!
Scrivono i due autori (rispettivamente una storica e uno psicanalista): “Oggi, appena si comincia a crescere, gran parte di noi crede intimamente che la gentilezza sia la virtù dei perdenti. Una delle cose che i nemici della generosità non si chiedono mai è perché proviamo una cosa del genere. Perché mai siamo spinti, in qualche modo, a essere gentili verso gli altri, per non dire verso noi stessi? Forse, una delle cose che la contraddistinguono, diversamente da quel che accade a un ideale astratto come la giustizia, è che, rispetto alla gran parte delle situazioni quotidiane, sappiamo esattamente cosa sia; tuttavia, proprio il fatto di sapere cosa sia un gesto gentile ci rende più agevole il rifiuto di compierlo”.
In realtà, la gentilezza fa sentire profondamente a disagio chi, in nome dell’aspirazione al successo e all’indipendenza non solo economica, ma anche emotiva, teme di legarsi troppo agli altri, di essere giudicato un “nostalgico”. Povero illuso: nessun essere umano è un’isola! Ha dichiarato il celebre scienziato Richard Dawkins: “Se gli esseri umani agissero solo in base alla legge genetica dell’egoismo universale, la società sarebbe molto dura… Facciamo in modo di insegnare la generosità e l’altruismo, dal momento che siamo nati egoisti. Facciamo in modo di capire cosa sono capaci di fare i nostri geni egoisti, perché così avremo almeno l’opportunità di sconvolgere i loro piani”. Lo scrittore turco Ohran Pamuk, premio Nobel per la letteratura, ha sempre sostenuto appassionatamente una dote che “hanno solo gli esseri umani”, quella “di identificarsi con il dolore, il piacere, la gioia, la noia degli altri”, anche delle persone che non apprezziamo.La storia ci illustra i molteplici modi con cui gli esseri umani cercano un legame, dalla celebrazione classica dell’amicizia alle filosofie del XX secolo sul Welfare State. E ci mostra fino a che punto la capacità di amare il prossimo sia inibita da paure e rivalità ataviche. Per gran parte della cultura occidentale la gentilezza è stata legata alla cristianità, che pone al vertice l’ideale della caritas, per secoli benefico collante tra individui e società. Ma dal XVI secolo in poi il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è stato progressivamente eroso dalle derive dell’individualismo, come teorizzato da Thomas Hobbes. A molti tutt’oggi la gentilezza ispira diffidenza e le dimostrazioni pubbliche di generosità e solidarietà vengono bollate come moralistiche e sentimentali, se non ipocrite. Ad ogni modo, la disponibilità a farsi carico della fragilità altrui è considerata un segno di debolezza. Ogni forma di compassione è autocommiserazione, affermava D.H. Lawrence.
Attenzione, però, a che questa gentilezza non sia solo una forma di narcisismo camuffato: siamo gentili perché ci gratifica e soddisfa la nostra ansia di autocompiacimento. Comunque, il ritratto che Rousseau in “Emilio” fa del protagonista spiega molto bene perché la bontà è la qualità umana più invidiata: le persone credono di provare invidia per il denaro, la fama e il successo, ma in realtà invidiano soprattutto la bontà, indice di serenità e gioia di vivere.
In definitiva, ieri come oggi ogni attacco contro la gentilezza è un’aggressione alle nostre speranze e alla nostra stessa vita.