Quando l’ingrediente è il marchio
Rendere visibile l’invisibile, generare valore per il cliente e per tutta la filiera, sviluppare una strategia business-to-business-to-consumer. Sono questi i temi al centro del libro “Ingredient Branding: Making the Invisible Visible” di Philip Kotler e Waldemar Pfoertsch, ripresi poi in un interessante articolo da Erica Corbellini, SDA Professor of Strategic and Entrepreneurial Management dell’Università Bocconi di Milano (v. www.ideas.sdabocconi.it/strategy/archives/2506). E’ senz’altro opportuno riassumerlo qui ad uso degli imprenditori del fashion system (e non solo), che vi troveranno molti spunti di riflessione.
La professoressa Corbellini parte dall’esempio del marchio di abbigliamento sportivo Gore-Tex, che i clienti sono disposti a pagare di più perché veicola una promessa – quella di una maggiore traspirabilità e resistenza agli agenti atmosferici – a cui credono, anche se non riescono a capirne il funzionamento tecnico. E ci credono perché da anni questa caratteristica invisibile nell’estetica del capo finale è stata comunicata con un linguaggio emozionale capace di collegare il concetto hard della tecnologia a quello soft dell’evasione. In sostanza, Gore-Tex ha saputo rendere l’invisibile visibile. Idem potrebbe dirsi per la fibra Lycra, diventata sinonimo di comfort nell’abbigliamento intimo, grazie al nome “giusto” ed a continue campagne pubblicitarie con celebrities, operazioni di co-branding con aziende a valle e innumerevoli cartellini ed etichette.
Il valore delle materie prime per essere percepito deve essere comunicato. In altre parole, l’internal brand deve diventare external.
I succitati autori del libro Kotler e Pfoertsch definiscono l’ingredient brand come “the technical term of this strategy of taking the product – originally a business-to-business product – to the consumer marketplace, where it gains global recognition”.
Il punto cardine del loro argomentare è che, dopo alcuni anni di investimento, il valore dell’ingredient brand può giungere a superare quello del prodotto finito nel quale è inserito. A questo punto, infatti, l’internal brand non dipende più dalla fama del marchio del prodotto finito di cui è una componente, e d’altro canto è possibile passare dalla filosofia B2B a quella B2C. E’ questo il percorso seguito da marchi come Zegna e Loro Piana che dai tessuti sono passati al capo finito facendo leva proprio sulla notorietà e la qualificazione ottenute con investimenti pioneristici nella comunicazione della materia prima. Lo stesso discorso vale per Swarovski, un’azienda che dagli animaletti di cristallo venduti nei negozi di casalinghi è diventata protagonista del mondo dei bijoux grazie ad anni di cooperazione con i maggiori stilisti.
Ma come si fa a sviluppare una strategia B2B2C quando non si può contare né su un corposo ufficio marketing né su budget elevati? E soprattutto come è possibile quando i nostri clienti sono marchi importanti poco inclini ad accettare che un’altra creatività si sovrapponga alla loro e assai timorosi di aumentare il potere contrattuale del fornitore?
In Italia non mancano validi esempi di aziende che hanno investito in una strategia B2B2C, costruendo la loro identità di marca non in opposizione, ma in modo complementare ai valori funzionali ed emozionali dei brand di prodotti finiti loro clienti. Nel mondo dei tessuti si sono distinti Vitale Barberis Canonico, il lanificio più antico del mondo con i suoi 350 anni di storia, e il Gruppo Albini
(la cui mission è di “creare i tessuti per camicia più belli del mondo”).
L’Amministratore Delegato di quest’ultima realtà in un’occasione ha dichiarato: “Oggi il consumatore è sempre più consapevole, attento, comparativo. Un consumatore che vuole conoscere il prodotto in tutte le componenti, sempre più interessato alle materie prime e alle fibre, alla qualità intrinseca dei tessuti, all’innovazione, alla sostenibilità nel senso più ampio, ambientale, sociale, dei territori. Ecco questi valori così attuali dei consumatori evoluti di oggi, sono precisamente i valori più tipici della filiera tessile italiana. Per questo possiamo e dobbiamo evolverci insieme ai nostri clienti, in un rapporto win-win che crea valore, perché basato sull’educazione del consumatore finale a riconoscere, apprezzare, e perciò ricompensare adeguatamente, il valore di ciò che acquista”
Educare il consumatore alla qualità del prodotto – ovvero agli elementi tangibili (performance, innovazione e sostenibilità) e intangibili (creatività, heritage del produttore, story telling emozionale del marchio ingredient) – può accrescere sia la disponibilità a pagare un premium price sia il livello di fidelizzazione. L’ingredient branding può così rappresentare una strategia in cui tutti risultano vincitori, tanto il fornitore quanto il produttore, perché tutti operano per il comune obiettivo di aumentare il valore percepito del prodotto.
Perché ciò avvenga è tuttavia necessario veicolare l’ingredient in modo emozionale, ovvero parlare il linguaggio del consumatore finale e non quello industriale dei tecnici di produzione. Si prenda appunto il caso del suddetto Vitale Barberis Canonico, che nel 2013, per celebrare l’importante anniversario della fondazione ha realizzato, in collaborazione con la rivista Rolling Stone, un manuale di stile, la “Rock&Roll Gentlemen’s Style Guide”, con l’obiettivo di educare all’eleganza dell’abito su misura attraverso le immagini di rockstar vestite con abiti formali. Tale sodalizio inedito è stato poi presentato a Pitti Uomo 84 con la Rock&Roll Gentlemen’s Style Lounge: un fatto clamoroso perché prima di allora nessun marchio di tessuto era entrato nel tempio del prodotto finito maschile.
“Nel binomio tra tradizione e futuro – scrive Corbellini – vi è quindi la ricetta per un ingredient brand di successo. Per essere un punto di riferimento autorevole ma anche per diventare un immaginario aspirazionale. Come nel bello slogan di Woolmark, una ‘ReWOOLution’ che metta al centro della comunicazione la naturalezza, purezza, in un certo senso eternità della materia prima di qualità, sempre però con quel twist che rende il classico contemporaneo”.