Resa dei conti in sartoria
L’economia sommersa e lo sfruttamento dei lavoratori, oltre a danneggiare le casse dello Stato, alterano le regole del mercato, creando un illecito vantaggio competitivo ai danni dei contribuenti onesti. A questi fenomeni sono legate diverse manifestazioni di illegalità che minano le fondamenta di un Paese civile come l’Italia: basti dire che l’anno scorso la Guardia di Finanza ha scoperto 19250 lavoratori irregolari, di cui 9252 completamente in nero. Non poche di queste realtà hanno a che fare con la moda. Per tacere di quanto accade in luoghi molto distanti da noi, dove brand di prim’ordine sono risultati committenti di capi di abbigliamento a laboratori che operano sottocosto abusando di povera gente, non di rado ragazzini. Sono questioni già ben note purtroppo.
Se riprendiamo l’argomento, è perché lo riteniamo sempre di pressante attualità. Comunque lo vogliamo affrontare senza retorica o moralismi di sorta, ricorrendo ad una semplice “favola” che il grande Dino Buzzati pubblicò nel 1968 in “La boutique del mistero”. Ecco cosa racconta la “La giacca stregata” (questo il titolo del pezzo).
Il protagonista (che chiameremo P per brevità), una sera ad un ricevimento a Milano, conobbe un uomo di notevole garbo e perfetta eleganza, “il quale letteralmente risplendeva per la bellezza, definitiva e pura, del vestito”. Tuttavia lo circondava un alone di tristezza e di malessere. Conversando con lui, P non poté fare a meno di complimentarsi per il taglio magistrale del suo abito, chiedendogli anche chi ne fosse l’artefice. “Quasi nessuno lo conosce” rispose quello “però è un gran maestro. E lavora solo quando gli gira. Per pochi iniziati… Si chiama Corticella, Alfonso Corticella, via Ferrara 17». “Sarà caro, immagino” replicò P, e l’altro: “Lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato”.
Fatto sta che il nostro P si decise a recarsi da questo sarto, un vecchietto dai modi sgradevolmente melliflui, che accettò di buon grado di cucirgli un vestito e, alla richiesta di un preventivo, rispose che “non c’era fretta”. Una volta ultimato, l’abito si rivelò un autentico capolavoro e a P stava a pennello. Questi, la prima volta che lo indossò, si accorse che nella tasca destra c’era una banconota da diecimila lire. L’uomo concluse che doveva essere finita lì per una distrazione del Corticella, per cui si accinse a restituirgliela, ma poco dopo si rese conto che dalla stessa tasca usciva un altro biglietto. E così via in un crescendo senza fine. Quando poi si mise a contare il denaro, vide che si trattava di cinquantotto milioni abbondanti.
“Non capivo se vivevo in un sogno, se ero felice o se invece stavo soffocando sotto il peso di una fatalità troppo grande. Per la strada, attraverso l’impermeabile, palpavo continuamente in corrispondenza della magica tasca. Ogni volta respiravo di sollievo. Sotto la stoffa rispondeva il confortante scricchiolio della carta moneta” ammise tra sé e sé P.
Ma il suo gioioso delirio venne presto interrotto dalla notizia, pubblicata in prima pagina sui giornali, di una rapina in banca in cui era rimasto ucciso un passante ed erano stati sottratti cinquantotto milioni, proprio la cifra che lui aveva estratto dalla magica tasca. Ne restò turbato, “ma urgeva il miraggio di una vita di lussi sfrenati. E la sera stessa mi rimisi al lavoro… Altri centotrentacinque milioni si aggiunsero al tesoro precedente”. Poche ore dopo, però, gli giunse la terribile notizia di un incendio in cui erano periti due vigili del fuoco ed erano state distrutte le casseforti di un istituto contenenti centotrenta milioni.
“Devo ora forse elencare uno per uno i miei delitti? Sì, perché ormai sapevo che i soldi che la giacca mi procurava, venivano dal crimine, dal sangue, dalla disperazione, dalla morte, venivano dall’inferno. Ma c’era pure dentro di me l’insidia della ragione la quale, irridendo, rifiutava di ammettere una mia qualsiasi responsabilità. E allora la tentazione riprendeva, e allora la mano – era così facile! – si infilava nella tasca e le dita, con rapidissima voluttà, stringevano i lembi del sempre nuovo biglietto. I soldi, i divini soldi!”.
P in definitiva comprese che, ogni volta che prelevava contanti dalla giacca, nel mondo accadeva qualcosa di tragico, per cui “ad ogni nuova riscossione, la coscienza mia si degradava, diventando sempre più vile”.
Nel frattempo P cercò pure di rintracciare il sarto per saldare il conto, ma invano: nessuno sapeva dove fosse finito. L’uomo giunse ad un punto di disperazione tale che decise di distruggere la giacca stregata “per non sprofondare fino al fondo dell’abisso”. Quindi la cosparse di petrolio e le diede fuoco incenerendola. Tuttavia “all’ultimo guizzo delle fiamme, dietro di me risuonò una voce umana: «Troppo tardi, troppo tardi!». Con quella giacca però scomparve tutto: la bella auto, la villa sontuosa, i depositi in banca, i pacchetti azionari…
Il finale è quasi scontato. Lasciamo comunque la parola a P: “Adesso ho ripreso stentatamente a lavorare, me la cavo a mala pena, e, quello che è più strano, nessuno sembra meravigliarsi della mia improvvisa rovina. E so che non è ancora finita. So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abbietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora”.
Temo che di quello stesso sarto siano debitori in molti nella fashion community…