Semplicemente elegante
Mancano pochi giorni ormai, e poi non si parlerà d’altro che del Festival di Sanremo, in cui “moda e modi” tanta parte giocheranno come sempre, al pari – se non di più – delle canzoni stesse. E ancora una volta ci ritroveremo a commentare che questo concorso canoro (o presunto tale) è uno specchio della nostra società, tutta presa dalle etichette (dall’etica ancora poco) e dalle apparenze. La fiera delle vanità che vi ruota intorno (malgrado l’imprinting “intellettuale” che nelle ultime due edizioni Fabio Fazio ha cercato di conferirgli mescolando cultura alta e bassa), induce continuamente a ripensare all’eleganza tout court, sempre più compromessa da trend del momento e cattivo gusto dominante. Il riferimento non è tanto diretto a chi il Festival lo presenta o ai cantanti che si alternano sul palco, quanto alla pletora di “satelliti” che vi orbitano intorno in cerca di luce riflessa (quanti giornalisti, opinionisti, “esperti”, quanti pseudo-scoop, interviste, retroscena, quanti blabla da talkshow, sfilate di starlet telecamera-centriche, pubblico da arena circense, ecc.). I più si palesano abbigliati in modo da attrarre quanto possibile l’attenzione, senza alcun amore per il bello e senza alcuna vaga idea di cosa la raffinatezza sia, né perché sia vitale come l’aria che si respira.
Tutta questa premessa per dire che l’essenziale consiste, invece, nel saper scegliere le cose belle, come predicava lo scrittore dandy Honoré de Balzac (1799-1850), geniale demiurgo del romanzo francese, che nel 1830 diede alle stampe il “Traité de la vie élégante”. Per lui, la vita elegante è un sentiero iniziatico, una “scienza delle maniere”, il cui principio fondante è “un alto pensiero d’ordine e d’armonia, destinato a trasmettere poesia alle cose”. E la poesia chiede, pretende, esige che ogni cosa appaia per ciò che è: Balzac aveva capito infatti che “tutto ciò che punta sull’effetto è di cattivo gusto, come tutto ciò che è confusionario”. Non si tratta quindi di un semplice manuale che detta rigidamente le regole da seguire per il raggiungimento dello status di homo elegans, bensì rappresenta un viaggio alla riscoperta del gusto e della bellezza.
Ha scritto il professor Stefano Parisi nella post-fazione alla quarta edizione italiana del “Trattato della Vita Elegante”(ed. Piano B, 2011): “Tutti ambiscono a Dire, Fare, Essere. Una serie di verbi che non vengono mai coniugati alla prima persona e restano tali: Essere eleganti, Essere se stessi, Fare grandi cose, Dire le frasi giuste. Manca sempre il soggetto, facendo cadere la massa nel ridicolo di una vita privata del vero protagonista dell’esistenza, l’IO. L’omologazione raggiunta attualmente in ogni campo, dal bel vestito firmato e costoso che rassicura e tutela la mancanza di conoscenza, di curiosità per i tessuti, per le fogge, fino a quella che investe la sfera dell’alimentazione, sempre più pressata in scatole minuscole e prive di sapori, è dovuta a una mancanza di modelli di riferimento, all’incapacità di ascoltare le proprie esigenze e aspirazioni. Ai tempi di Balzac, nel 1830, la borghesia aveva voglia di essere presente al meglio, pur coprendosi di ridicolo, nei salotti francesi, attraverso scritti di questo genere, ma comunque conoscendo il passato della sua nazione, la storia dei suoi costumi, avendo quindi una base (pre)costituita dalla propria quotidianità: prima della rivoluzione industriale tutti gli abiti, le scarpe altri accessori erano artigianali, c’erano artigiani per ricchi e per poveri, l’arte e la bellezza erano ovunque, circondavano uomini e donne, i nobili erano punti di riferimento, ma soprattutto lo erano i propri genitori e nonni”.
Ma oggi – vien da chiedersi – chi ci tramanda valori, storia, radici che creino un continuum esistenziale, se non la “cattiva maestra televisione”, per dirla alla Karl Popper, assieme all’ambigua internet ed al suo tritacarne informativo? Non ci restano a mo’ di paradigmi di stile, di moda e di modi, che attori, cantanti e saltimbanchi vari. Lo stesso Parisi li vede (e ci vede) ormai ridotti a “corpi e anime fragili che non vedono quanto hanno perso del loro amore per ciò che li circonda, per la semplicità che è massima espressione di gusto e apprezzamento del bello oggettivo e soggettivo, esteriore e interiore”. Quanta verità c’è, a ben riflettere, in queste parole! La semplicità delle buone maniere, di un capo abbinato in modo corretto, il rispetto di unità, pulizia e armonia, il piccolo rituale di scegliere la propria mise in base al dove, al quando e al perché di un luogo, dovrebbero tornare ad essere questioni che lambiscono il terreno dell’etica, oltre a quello dell’estetica! Il grande insegnamento di Balzac resta il far comprendere, senza retorica, che il bello è in ognuno di noi, che il vero uomo elegante non è un pagliaccio colorato e griffato che fa girare gli occhi dei passanti, ma il suo perfetto contrario, che la sobrietà è un dono da elargire o ricevere.
Infine, ecco qualche aforisma dello scrittore francese, tra ironia e lezione di stile, scelto qua e là nel “Trattato della vita elegante” (opera apparsa a puntate sulla rivista “Le Mode” 184 anni fa e rimasta incompiuta rispetto al progetto dell’autore):
– Ricchi si diventa; eleganti si nasce.
– Il bene non ha che una forma, il male ne ha mille.
– La trascuratezza della toeletta è un suicidio morale.
– Il bruto si copre, il ricco o lo sciocco si agghindano, l’uomo elegante si veste.
– Uno strappo è una disgrazia, una macchia è un vizio.
– L’eleganza non consiste tanto nel vestito quanto nel modo di portarlo.
– Tutto ciò che mira all’effetto è di cattivo gusto, come tutto ciò che è chiassoso.
– Andar più in là della moda vuol dire cadere nella caricatura.
In definitiva il grande insegnamento di Balzac è quello di far comprendere che il bello è in ognuno di noi e che l’eleganza è un dono: da elargire e da ricevere.