Barba e capelli, per favore
“Anche nell’atto di farsi la barba c’è una filosofia” proclamava il mordace William Somerset Maugham, mentre il sulfureo Karl Kraus dichiarava che le conversazioni dal parrucchiere sono la prova inconfutabile che le teste servono per i capelli. In realtà nei saloni dei barbieri è sempre transitato un mondo maschile assai vario anche dal punto di vista intellettuale, etico ed estetico, a cui ora rende omaggio “Barber Couture. Tagli, stili e accessori 1940-1960”, un pregevole volume curato da Giulia Pivetta con illustrazioni di Matteo Guarnaccia (edito da 24 ORE), che tratta delle acconciature virili più cool del XX secolo, tuttora in voga.
Il libro, in particolare, spiega come sia mutato nel tempo l’atteggiamento degli uomini nei confronti della barberia, ripercorrendo i diversi tagli modaioli di metà Novecento, riportati in auge dai maschi odierni: giovani e non, viaggiatori, benestanti, spensierati, professionalmente realizzati, edonisti, vanitosi, sessualmente liberi, sempre più attenti alla cura personale ed ai capelli in particolare.
Dalle acconciature “scolpite”, come il famoso Mop-Top dei Beatles o le “architetture” con Brylcreem degli aviatori inglesi, alle chiome sofisticate da latin-lover, fino alla capigliatura ribelle di Zooties, Teddyboys, Rockabilly, “Barber Couture” analizza in dettaglio le diverse fogge con un ricco supporto iconografico tra cui splendide foto d’epoca. Si possono così rivedere i provocatori “Zazous” ai tempi della Repubblica di Vichy, la “criniera” superbamente imbrillantinata dello scrittore Curzio Malaparte, i capelli a spazzola dell’impassibile Dino Buzzati, il folto “cespuglio” grigio di Emil Cioran, il pizzetto politicamente “destrorso” di Ezra Pound a cui fanno da contrappunto le storiche barbe della sinistra aggraziate dai fascinosi barbudos cubani, le perfette scriminature laterali dei maschi americani che incarnano la Way of Life del capitalismo trionfante all’insegna della “ricerca della felicità”, per concludere paradossalmente con i capelli blu di Jean Cocteau a Montecarlo, su cui il mordace Oscar Wilde avrebbe potuto commentare: «I giovani d’oggi sono davvero terribili, non hanno il benché minimo rispetto per i capelli tinti».
Le schede proposte da “Barber Couture” sui singoli tagli sono affiancate da approfondimenti su eventi del periodo in cui l’acconciatura è nata e sui personaggi iconici del cinema e della musica che ne hanno interpretato al meglio il mood: da Marlon Brando a Marcello Mastroianni, da James Dean a Miles Davis, da Elvis Presley a David Bowie.
Il volume, ideale per autentici hipsters alla riscoperta delle mode giovanili del secolo scorso, è inoltre completato da un’interessante sezione dedicata alle sale da barba.
I capelli, però, sono soprattutto una questione femminile. Pertanto, dobbiamo assolutamente dar conto di un altro magnifico libro pubblicato di recente sul simbolismo delle chiome muliebri nel XIX secolo, quando Parigi divenne la capitale mondiale della moda e allo stesso tempo dell’acconciatura. Si tratta di “Coiffures: les cheveux dans la littérature et la culture française du 19e Siècle. Romantisme et modernités” (Honore Champion Editions). L’autrice è Carol de Dobay Rifelj (con Camille Noiray), che ha studiato le pratiche sociali e culturali dell’epoca attraverso la narrazione che ne hanno fatto scrittori realisti come Balzac, Sand, Flaubert, Maupassant, Zola.
Più che i vestiti e i tratti fisici, sono stati proprio i capelli gli elementi su cui questi artisti si sono focalizzati per fornire indicazioni sulla personalità, sulla situazione sociale e sui sentimenti delle eroine descritte. Nelle loro opere, in effetti, hanno mostrato quanto la chevelure sia ricca di implicazioni profonde: basti pensare al significato che la società assegna al colore, allo spazio intimo in cui la donna si pettina, alle ciocche scambiate tra gli amanti come feticci erotici da conservare devotamente, al rapporto tra i capelli e la morte, nonché al nesso con l’identità sessuale.
Baudelaire, nei suoi “Fiori del male” intitola una poesia “La Capigliatura”, definendo la chioma profumata una «foresta aromatica» che evoca «estasi» e «ricordi dormienti» dell’«alcova oscura»; d’altro canto, nella “Nanà” di Zola i capelli sono associati alla sessualità bestiale, mentre Maupassant, nella novella “La Capigliatura”, ne fa una metafora del magnetismo che l’alienazione mentale esercita su di lui. Comunque, è soprattutto Flaubert a narrare chiome femminili rimaste leggendarie, come quella di Emma Bovary, la quale fin dalla prima seducente apparizione a Charles viene descritta con «due bande lisce e compatte di capelli neri». Parimenti Justin, il garzone del farmacista, quando ha occasione di vedere «quella cascata di capelli neri che quasi scendeva fino a terra srotolando le sue nere volute», ne rimane profondamente turbato. I capelli di Emma sembrano seguire le sue emozioni dipanandosi lungo tutto il romanzo: così, dopo l’avvio della relazione adulterina con Rodolphe, diventano «una massa pesante», che si avvolge sulla nuca «con indolenza». Infatti i capelli dénoués, in quasi tutte le opere letterarie, assurgono a emblema della passione, dell’abbandono erotico della donna, che, come la sua chioma, si lascia andare. Del resto, anche ai giorni nostri il cantautore Francesco Guccini canta: “Certo non sai quanto sei dolce e bella quando dormi con i capelli lunghi sparsi abbandonati sul cuscino”.
Non si dimentichi comunque che “per avere dei capelli belli – come sentenziava la tenera Audrey Hepburn – basta semplicemente lasciare “che un bambino vi passi le sue dita una volta al giorno”.