Pochi debiti, siamo italiani!
Uno scenario con luci e ombre emerge dai dati recentemente diffusi sulla moda italiana. Secondo un rapporto dell’Area Studi di Mediobanca, elaborato in base ai bilanci 2009-2013 e presentato in occasione della Fashion Week milanese, le nostre imprese possono fregiarsi di una struttura finanziaria eccellente… persino troppo, nel senso che un livello così basso di indebitamento denota un ricorso eccessivo ai mezzi propri ovvero uno scarso utilizzo della leva finanziaria per migliorare la redditività (e potrebbe pure rivelare che non sono stati compiuti molti sforzi in termini di investimenti), in decisa controtendenza rispetto a quanto accade all’estero. Se si circoscrive l’analisi alle 10 principali aziende con sede in Italia (TopModa), risulta che nel 2013 i debiti finanziari rappresentano solo l’8,6% del patrimonio netto e il 25% della liquidità, la quale è pari a 3,9 mld (in crescita del 6,6%). In generale il settore moda risulta possedere un ‘tesoretto’ di liquidità da 7,3 miliardi di euro, che comunque potrebbe essere prezioso in vista di eventuali acquisizioni. Sotto il profilo del rating, su dieci imprese sei mostrano dati di bilancio ‘investment grade’, tre sono intermedie, solo una appare finanziariamente fragile.
La Direzione Studi e Ricerca di Intesa Sanpaolo, nella settima edizione del rapporto annuale “Economia e finanza dei distretti industriali”, ha invece catalizzato l’attenzione sul fatto che i distretti del Sistema Moda, anche se si confermano tra i migliori nel panorama nazionale, hanno prodotto numeri meno brillanti di altri comparti sotto l’aspetto della crescita e della redditività. Al vertice, infatti, svetta il settore agroalimentare che ottiene i primi tre posti; la moda segue aggiudicandosi i successivi cinque gradini del podio con l’occhialeria di Belluno, le calzature di San Mauro Pascoli, la concia di Arzignano, la pelletteria di Arezzo, le calzature napoletane, mentre il distretto fiorentino delle scarpe si posiziona sull’undicesimo scalino.
Secondo le simulazioni di Intesa Sanpaolo, i distretti della moda, che come le altre localizzazioni produttive italiane hanno messo a segno una performance migliore rispetto al manifatturiero, dovrebbero aver chiuso il 2014 in linea (+1% di fatturato, valori mediani) e crescere del 2,7% nel 2015, per poi scendere tuttavia a +1,7% circa nel 2016. In effetti i distretti, che per i prossimi due anni si attendono un incremento delle vendite (+3,1 nel 2015 e +3,2% nel 2016), già nel 2014 hanno mostrato qualche segnale di ripresa, con un fatturato in crescita dell’1% (contro lo 0,7 del 2013 e il -3,2% del 2012).
Per quanto riguarda il tema della rilocalizzazione, il rapporto ha posto in luce che “il processo di re-shoring sembra essere particolarmente diffuso all’interno dei distretti del sistema moda, dove la riduzione di capacità produttiva italiana nelle fasce qualitative più basse ha ridotto la domanda di valore aggiunto intermedio importato e, al contempo, l’affermazione delle produzioni italiane del lusso ha favorito le filiere produttive interne, sempre più attivate anche dalle maison della moda internazionali che nei distretti sono presenti con rapporti di fornitura e/o di proprietà. Si sta dunque assistendo sia al rientro o al ritorno di investimenti produttivi da parte di aziende italiane (che creano nuovi impianti o esternalizzano la produzione affidandola a terzisti del territorio), sia all’arrivo di marchi europei in cerca di qualità”. Basti pensare a Burberry, Tod’s, LV, Prada, Ferragamo, Zegna, Cucinelli, che continuano ad ampliare e rafforzare la loro presenza sul suolo del Bel Paese.
Ciò non toglie che l’attenta Paola Bottelli abbia scritto sul “Sole-24 Ore” pochi giorni fa: “Nonostante le intenzioni di reshoring, cioè di rimpatrio delle produzioni delocalizzate, al momento il radicamento di molte imprese in Paesi a minor costo della manodopera non sembra virare verso i confini nazionali. Inoltre, sui conti dell’import pesano i massicci acquisti dall’estero delle catene fast fashion, italiane e internazionali, che si approvvigionano di enormi volumi di prodotti dall’Asia, dal bacino del Mediterraneo e dall’Est europeo”.
Passando infine alla questione strategica dell’internazionalizzazione delle nostre aziende fashion, va detto che nel 2014, secondo le stime di Sistema Moda Italia, l’incidenza dell’export sul fatturato del segmento femminile è cresciuta di due punti percentuali rispetto a un anno prima, malgrado l’handicap dimensionale, arrivando a sfiorare il 60%: le esportazioni incidono per ben il 59,7% sul totale.
A fronte di consumi paralizzati sul mercato interno (dove, secondo un’elaborazione di Sita Ricerca per Smi, l’unico canale realmente in crescita per lo shopping è l’online che, malgrado pesi solo per il 3% sul totale, è aumentato del 30%: dato riferito all’autunno-inverno 2013-14), per la moda femminile l’export nel 2014 ha conquistato il record assoluto, salendo del 4,2% a 7,3 miliardi, mentre il fatturato ha realizzato un leggero incremento: +0,7% a 12,3 miliardi. Positivo per 3,3 miliardi il surplus della bilancia commerciale, in linea con quello dell’anno precedente.
Il messaggio è chiaro dunque: la situazione è promettente, ma si può, anzi si deve, fare di più investendo con maggior determinazione sui valori distintivi del made in Italy d’eccellenza, quello che fa (e farà sempre, ci auguriamo) impazzire i clienti internazionali.