“Grand Budapest Hotel”: la straordinaria vena inventiva di Wes Anderson e Milena Canonero
Sembra quasi che ci si sia stancati delle imponenti ricostruzioni storiche più o meno accurate, sfarzose e dal gusto scenografico. Negli ultimi anni l’Oscar per i costumi è stato conferito ad “Anna Karenina” (2012) di Joe Wright ed ad “Il grande Gatsby” (2013) di Baz Luhrmann, che hanno proposto un nuovo genere di sperimentazione: contaminare l’abbigliamento d’epoca con tendenze contemporanee, nel primo caso la Russia di fine Ottocento con l’alta moda parigina degli anni Cinquanta e nel secondo gli Stati Uniti degli anni Venti con le creazioni degli ultimi anni di Miuccia Prada. Non bisogna poi dimenticarsi dei fantasy, oramai parte sempre maggiore delle uscite cinematografiche annuali, sotto il predominio assoluto della Disney, dall’Oscar per “Alice in Wonderland” (2010) di Tim Burton fino alla presenza di ben due film su cinque tra le nomination di quest’anno, “Into the Woods” di Rob Marshall e “Maleficent” di Robert Stromberg, ed appare lecito supporre che l’anno prossimo uno dei favoriti sarà “Cenerentola” di Kenneth Branagh.
Per creare un mondo di fantasia è sempre necessario partire da basi storiche. Ma esistono solo i fantasy? Non è possibile ideare un mondo immaginario dai tratti realistici o quantomeno verosimili ma la cui irrealtà è resa evidente da una serie di strumenti specifici come i costumi? Il regista Wes Anderson l’ha sempre fatto con i suoi film ed il suo ultimo lavoro, “Grand Budapest Hotel” (2014), ha ottenuto ben quattro premi Oscar, tra cui quello per i migliori costumi, andato all’italiana Milena Canonero. Classe 1946, la costumista ha ottenuto la sua nona nomination e vinto la sua quarta statuetta, coronando una carriera iniziata ben quarantacinque anni fa e ben lungi dal concludersi, in cui ha dimostrato di saper adattare il proprio talento e le proprie capacità a seconda del regista con cui si trova a collaborare.
Estremamente accurata e precisa nel ricostruire un’epoca storica, ha vinto il suo primo Oscar assieme a Ulla-Britt Söderlund (1943-1985) per “Barry Lyndon” (1975) di Stanley Kubrick (1928-1999), con cui ha esordito con “Arancia Meccanica” (1971) e con cui ha lavorato anche per “Shining” (1980). Per raccontare l’ascesa sociale dell’irlandese Barry Lyndon (Ryan O’Neal) nell’Inghilterra del XVIII secolo, il regista americano ha ricreato sullo schermo quadri realizzati da artisti del periodo come Jean-Antoine Watteau (1684-1721) e Thomas Gainsborough (1727-1788) attraverso la luce, le scenografie, le posizioni e gli atteggiamenti dei personaggi ed i costumi. Questi infatti sono basati sugli stessi dipinti e sull’abbigliamento del periodo, alcuni addirittura risalgono veramente al Settecento e sono stati comprati all’asta dalla costumista italiana.
Nei decenni successivi le sue abilità vengono confermate da altre due statuette, per il dramma sportivo “Momenti di gloria” (1981) di Hugh Hudson, che narra la partecipazione alle Olimpiadi del 1924 dei velocisti inglesi Eric Liddell (Ian Charleson), cristiano, e Harold Abrahams (Ben Cross), ebreo, e per “Marie Antoinette” (2006) di Sofia Coppola, in cui si susseguono continuamente pizzi, fiocchi, nastri, volant, perle, piume e fiori finti su abiti, scarpe ed imponenti acconciature, con una netta predominanza di un vezzoso e bamboleggiante rosa confetto. Un’abbondanza di decorazioni artificiose e leggere, come prevedeva la moda settecentesca, che pone in maggiore evidenza la proverbiale frivolezza della sovrana francese (1755-1793), interpretata da Kirsten Dunst, rappresentata tuttavia come una giovane donna schiacciata dal suo ruolo e terribilmente sola, che trova nei vestiti, nelle scarpe, nelle feste e nei cibi prelibati un modo per distrarsi dalla dura realtà. Come se non bastasse, una fugace inquadratura ad un paio di modernissime Converse azzurre sembra anticipare quella tendenza sperimentata di recente nei film di Wright e di Luhrmann.
Nel corso degli anni la Canonero ha lavorato anche per l’opera ed il balletto in alcuni dei più importanti teatri del mondo ed ha collaborato con celebri registi cinematografici, da Warren Beatty a Roman Polanski, da Francis Ford Coppola, padre di Sofia, a Wes Anderson, per cui ha dato vita ai suoi mondi bizzarri in altre due pellicole, “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” (2004) ed “Il treno per il Darjeeling” (2007).
Mentre questi due film presentavano un’ambientazione contemporanea, per quanto conforme alla stravaganza del regista americano, “Grand Budapest Hotel” è ambientato in un periodo che potrebbe essere quello a cavallo tra le due guerre mondiali, in un immaginario paese dell’Europa dell’Est di nome Zubrowka, nell’albergo che dà il nome al lungometraggio. Protagonisti sono il concierge, l’eccentrico e raffinato Monsieur Gustave H. (Ralph Fiennes), ed il giovane facchino che prende in simpatia, Zero Moustafa (Tony Revolori), che vivono una rocambolesca e bizzarra avventura in cui non mancano omicidi, inseguimenti ed il furto di una nota opera d’arte.
Gran parte dell’azione riguarda i dipendenti dell’albergo, perciò la costumista italiana ha realizzato delle uniformi fedeli alle tendenze degli anni Trenta, rendendole però uniche tingendole in un colore assolutamente inaspettato, il viola. Si passa così dai facchini, interamente in viola nelle loro inappuntabili giacche doppiopetto con rifiniture rosse chiuse con bottoni d’oro, pantaloni lunghi con una striscia rossa sui fianchi ed il caratteristico berretto tondo e piatto, a Monsieur Gustave, impeccabile nella sua giacca con revers viola con rifiniture rosse, sempre aperta per poter vedere la camicia di un bianco immacolato, portata con un papillon nero, ed il panciotto di un lilla sporco coordinato coi pantaloni. Si avverte quasi un certo divertimento da parte della Canonero nella loro creazione, tanto che nella sequenza in cui vediamo concierge di altri alberghi, tutti amici di Gustave, ognuno porta una divisa di un colore diverso, da quelli più standard come il grigio a quelli inaspettati come l’arancione ed il verde chiaro.
Allo stesso modo, per le divise dei soldati e della polizia al tipico verde militare sono stati preferiti il grigio ed il nero e nella loro ideazione sono state amalgamate più fonti militari, siccome era desiderio di Anderson l’accuratezza storica. Del loro abbigliamento fanno parte mantelle grigie con cappuccio e calzini alti grigi in cui infilano i pantaloni grigi per proteggersi dal freddo, berretti grigi per i soldati ed elmetti neri per i poliziotti, giacche grigie con diverse tasche, cinture nere e guanti neri. La lunga e pregiata pelliccia di astrakan grigia indossata dall’ispettore Henckels (Edward Norton) è stata realizzata da Fendi, che ha rifornito il reparto costumi di tutte le pellicce usate per il film.
La costumista ha collaborato anche con Prada, che ha prodotto la giacca di pelle nera – tutti gli antagonisti del film sono vestiti unicamente di questo colore- che ha disegnato per Jopling (Willem Dafoe), il sicario che insegue i due protagonisti, aggiungendovi su richiesta del regista una tasca per il suo arsenale di armi. In una scena lo si vede fare uso di nocche d’argento, create appositamente per il film da un caro amico di Wes Anderson, Waris Ahluwalia, rinomato gioielliere ma anche attore, essendo apparso in diverse pellicole del regista – in “Grand Budapest Hotel” interpreta il concierge indiano.
Il logo dei militari, due z affiancate simili a saette di colore rosa scuro su sfondo nero, di vaga suggestione nazista, è opera di Anderson, con cui la Canonero ha lavorato fianco a fianco: nonostante la sua visione fosse estremamente creativa e precisa e la costumista si fosse lasciata immergere nel suo mondo, lui l’ha incoraggiata ad apportare il suo contributo creativo. A lui è spettata comunque l’ultima parola, soprattutto per quanto riguarda trucco e capelli, a cui ha dato il suo tocco eccentrico.
I personaggi femminili principali sono due. Madame D (Tilda Swinton, invecchiata pesantemente grazie al trucco prostetico), una delle tanti amanti attempate di Monsieur Gustave, è un’agiata collezionista d’arte, eccentrica ma elegante. Poiché tra gli artisti che compongono la sua collezione Gustav Klimt occupa un posto privilegiato, le opere del pittore viennese (1862-1918) hanno costituito lo spunto principale per l’ideazione del suo abbigliamento, dai colori agli ornamenti, perfino per i suoi importanti gioielli – tra l’altro, la scelta del nome Gustave per il protagonista della pellicola è un chiaro omaggio al celebre artista. Infatti i suoi capi sono decorati con motivi geometrici di ispirazione klimtiana, come l’abito giallo scuro accollato a maniche lunghe ed il cappotto di velluto rosso con bordatura blu, accompagnato da un cappello e da guanti dello stesso colore, le cui rifiniture sono in una pelliccia di visone nera fornita da Fendi.
La dolce Agatha (Saoirse Ronan), la fidanzata di Zero, costituisce invece un personaggio completamente diverso, essendo un’apprendista pasticcera con una voglia a forma di Messico sulla guancia destra. Per lei la Canonero ha pensato di utilizzare tinte che si potessero abbinare ai dolcetti che crea, senza però dimenticarsela sua povertà: si vede che è cresciuta dentro la divisa che porta sempre, con maniche corte leggermente arricciate, colletto tondo piatto, cintura in vita, gonna a pieghe e rifiniture rosa pastello, tutti vaghi riferimenti infantili, così consumata che la sua tonalità di rosa ormai si avvicina al grigio. I suoi capelli biondi sono sempre legati in una treccia che le circonda la testa, a cui Wes Anderson ha aggiunto ancora una volta il suo unico personale tocco: una spiga di grano.