“The king of the elast”: intervista con Armando Pollini
Nasce in una piccola fumosa cittadina lombarda -Vigevano-; le scarpe sono il suo pane quotidiano e mezzo di sostentamento per l’intera famiglia, suo padre è modellista, sua madre orlatrice. Inizia a lavorare a bottega all’età di dodici anni appena dopo la quinta elementare costruendo da solo la propria fortuna, con l’ausilio -non dimentica di sottolinearlo- degli incontri fortunati nei momenti opportuni. Parliamo di Armando Pollini.
La sua decolté “ Cloudy” in camoscio azzurro e nuvole argento (un omaggio al dipinto de “la grande famiglia” di René Magritte) è esposta al Metropolitan Museum di New York, è comparsa assieme ad un esemplare di Salvatore Ferragamo ( gli unici due Italiani) sul calendario dello stesso Metropolitan, è stata pubblicata su “100 shoes” il libro edito da “The Costume Institute Metropolitan of Art” e altri esemplari di sue calzature hanno varcato la soglia del Victoria and Albert Museum di Londra.
E’ la prima domenica d’autunno, un fresco odore di acqua di colonia pervade e penetra le sale del Castello di Vigevano, sede del museo della calzatura “Pietro Bartolini” di cui Armando Pollini è attuale direttore artistico. Lo shoes designer, quanto mai gentile signore, mi accoglie assieme a un batuffolo bianco che si sdraia ai miei piedi a pancia in su, in cerca delle- non- ultime coccole.
Nel suo ufficio dipinti ad olio raffiguranti scarpe, e scarpette sparse tra comò e scrivanie contribuiscono a creare un’allure tutta speciale, così come l’affaccio sul parco del Castello da cui fa capolino l’ultima parte di una pianta rigogliosa.
Una mente brillante, accesa, eccelsa, assetata e curiosa. Soprannominato “The King of the elast” da una delle più importanti riviste americane è stato l’ideatore del geniale utilizzo del tessuto elastico per la confezione di scarpe e stivali. Questo tessuto, estremamente modellabile e capace di avvolgere il piede e la gamba come un guanto, venne scovato in Germania, fino ad allora usato per realizzare guepiere femminili. Sua anche la spiritosa “ballerina ambidestra” e suo “lo zatterone” che assieme ai pantaloni a zampa ha contribuito allo stile hippie degli anni 70’.
A vent’anni gli propongono Parigi: accetta. Poi Londra, Giappone, Stati Uniti; si muove per il mondo con la stessa disinvoltura con la quale gira per le vie della sua piccola città natale “ovunque mi proponessero di andare io andavo, ero assetato volevo succhiare dai luoghi, dovevo dissetarmi, assorbire”. “Dovevo vedere come funziona altrove, cosa in ogni dove, nelle menti creative di altri esseri che popolano questa terra. Oggi è normale viaggiare ed è alla portata di tutti, allora era raro, un accesso privilegiato”.
C’è un luogo che l’ha maggiormente formata rispetto agli altri?
Da ciascun luogo ho imparato qualcosa, ho sorbito da tutti i posti in cui ho vissuto; sono partito dalla “cittadina delle scarpe” – Vigevano- per approdare al “mondo delle scarpe” e conoscere la “scuola mondiale delle scarpe” .
Parigi, per esempio, negli anni 60’ era couture pura, molto “fumosa” , suadente, e intrisa di una magica allure. Conobbi lì gli stilisti “Paco Rabanne” e “Kenzo” allora un giapponesino esile esile di appena 22 anni che aveva la rara capacità di infilarsi a tutte le sfilate. Sempre a Parigi conobbi un grande uomo, prima che imprenditore, che mi insegnò il lato spirituale del materialismo -concetti filosofici- che non so ripetere, ma mi plasmarono.
Da Parigi volai a Londra, giravo rapito per Carnaby Street – la via della moda- era l’epoca di Mary Quant , (l’inventrice della minigonna) che conobbi, e Biba (Barbara Hulaniki) con la quale trascorsi assieme ad Elio Fiorucci -mio carissimo amico- dei momenti indimenticabili. A Londra tutto era possibile, le idee guizzavano come pesci colorati in un mare cristallino, qualsiasi cosa funzionava e aveva successo.
Londra era come lo studio di un pittore dove i colori sono caduti e si sono amalgamati. Uscivano cose geniali , un’ ispirazione a getto continuo. Elio era rapidissimo nel riprodurre le idee che lo colpivano, carpiva qualcosa, un dettaglio, qualsiasi cosa, e immediatamente correva dalla sarta e in quattro e quattr’otto lo produceva.. in un attimo era in vendita: era veloce, deciso, vincente.
In Italia all’epoca la moda era tradizionale, non c’era sperimentazione, io vedevo un modo diverso di fare cose e lo importavo con me. Volevo sapere come fanno gli altri le cose.
In Giappone scoprii un universo femminile interessante, scopri che la giapponese è alla ricerca del sapere e vuole approfondire ciò che non conosce. Non le interessa “ usare le cose” , “vuole possederle”, ciò a differenza dell’europea che ama mostrare ciò che acquista.
Poi l ‘America negli anni 70’, New York, molti ebrei in quell’epoca iniziarono lì nuove attività, mi trovai nel periodo dell’esplosione dell’arte, c’erano Andy Warrol , Kate Harring, Jean Michel Basquiat. Era tutto semplice, tutto a portata di mano, si percepiva tutto come possibile, ed era splendido! Tra Village e Soho era un pullulare di nuove idee e attività, tenevo le antenne alzate , studiavo i bisogni delle donne e del mercato e tentavo di soddisfarli.
C’è una persona che è stata molto importante nella sua vita dal punto di vista della formazione?
Fondamentale è stato l’incontro con Elio Fiorucci, avevamo la stessa età , lui aveva il negozio in via Torino, andammo assieme a Londra poi a New York, io ero un creativo puro e non sapevo “vendermi”; lui, eccezionale nelle pubbliche relazioni; mi insegnò l’importanza di pubblicizzarsi, di farsi conoscere, mi insegnò a trattare con i giornalisti. Dopo un mese a New York ottenni una copertina su “Vogue America”.
Quale è stata l’esperienza formativa più importante della sua vita ?
Il viaggio.
Lei ha insegnato alla facoltà di design del politecnico di Milano, cosa vuol suggerire a un giovane artista?
Di cercare qualcosa che lo ispiri, che sia unica e lontana dal mondo della moda. La cosa che lo ispira deve essere limitata, limitando il percorso infatti io invento uno stile, ho qualcosa su cui concentrarmi e non mi disperdo.
Mi spiego: se decido di ispirarmi alla natura, non devo osservare la natura in genere ma studiarne, approfondirne, imprimerne un solo aspetto. Devo sapere tutto di quello, lo devo spremere, devo essere il migliore. Solo specializzandomi e distinguendomi divento unico. Per esempio, voglio studiare un cavallo? Devo conoscerne tutti i dettagli : collo, zampe, zoccoli, odore, nitrito, criniera, sangue, sella, briglie, tutto.
E’ poi fondamentale la ricerca di materiali inconsueti, innovativi e adattabili.
E ‘ noto che per le sue collezioni si è ispirato all’arredamento di design anni 60’, perché questa scelta?
Disegnavo le mie scarpe pensando alle poltrone e ai divani dei grandi designer dell’epoca, perche erano l’unico oggetto di design ad avere una forma tridimensionale come la scarpa, mi ispiravano, e poi erano minimali, come me.
Il mondo della moda oggi è mutato, la moda divora se stessa con una vorace rapidità, cosa ne pensa?
Mai come adesso la moda è come un prodotto popolare più che lusso. Un tempo poi, la moda era a “zone” , mi spiego. C’era la moda tipicamente francese, quella inglese , americana eccetera, oggi è a “target”, di età, di mercato, è “trasversale”.
Oggi Armando Pollini prosegue la sua carriera e importa la sua professionalità dirottando le proprie conoscenze e competenze nel Museo della calzatura di Vigevano, che ha visto in pochi anni impennare le visite da ottocento a ventimila annuali, complici le varie mostre ideate in collaborazione con altri noti designer, quali Andrea Pfister e Jean Pierrè Dupres e esportate su scala internazionale, come quella dei tacchi a spillo tenutasi in sede nel 2008, e riprodotta a Madrid, New York e Bilbao. Mostra che ha portato, grazie anche alla contemporaneità con la Mostra di Leonardo da Vinci, circa 80.000 visite in quell’anno.
Quali progetti sono previsti per il futuro del museo?
L’intento è quello di raddoppiarlo. Si vuole ampliare la parte interattiva, e creare una grande area multimediale sfruttando l’ala della struttura un tempo ad uso dai maniscalchi per ferrare i cavalli. L’idea è inoltre quella di ricavare uno spazio per l’introduzione di moderni macchinari con stampanti tridimensionali , che possano essere utilizzate da giovani designer per vedere realizzate le proprie creazioni.
Questo progetto dovrebbe partire a breve, e verrà sovvenzionato da una grande azienda mondiale. Il proposito è trasformare un museo di “scarpe” in un museo di “moda”.
Cosa ha imparato nel periodo di “buio imprenditoriale” , e cosa c’è nel cuore di un uomo capace di reinventarsi?
Non mi sono mai soffermato sulle mie vicissitudini di carattere tragico, e nonostante nella mia vita abbia attraversato momenti molto difficili, ho sempre pensato di voler imprimere nella mia mente null’altro che ricordi, mai e poi mai vorrei rimpiangere qualcosa. Del resto, come disse Marco Aurelio: “una mente tranquilla, non è altro che una mente ben ordinata”.