E lo stilista creò la donna
Il corpo della donna è una mera questione di design maschile. Nessuno si scandalizzi di una affermazione così perentoria. In effetti, se consideriamo quale idealità imperi nel fashion system (ed abbia sempre imperato dacché la moda moderna ha visto la luce come fenomeno culturale oltre che estetico), ci rendiamo conto che a dettar legge in atelier sono stati i maschi soprattutto. In sostanza, è il modo di pensare di un uomo, è il progetto di un uomo, è la plateale invenzione di un uomo a forgiare, creare e ricreare ogni volta il corpo della donna. Sì, perché la silhouette femminile – questo è un convincimento di molti couturier – è imperfetta in sé!
Ma solo qualcuno ha il coraggio di dichiararlo esplicitamente, senza pruriti dettati da istanze politically correct. Ad esempio, il grande stilista americano Charles James affermava che il corpo delle donne è “intrinsecamente sbagliato”. Dunque lo considerava come un’armatura (sic) su cui costruire abiti-scultura che pesavano sino a 15 chili! Obiettivo: riplasmare la forma per correggerne gli “errori” congeniti.
La realtà è che la moda quasi sempre è stata concepita da maschi aventi come riferimento corpi immaginari: corpi che però essi impongono alle donne di possedere, costringendole quindi ad essere ciò che non sono e che non potranno mai essere (o che potranno essere solo a costo di inauditi sforzi “deformanti”), con tutte le conseguenze materiali e immateriali che ciò comporta. Insieme ad un abito, infatti, viene forzosamente definita una soggettività, o meglio una personalità estranea.
E che dire della maniacale attenzione della moda per singole parti del corpo, cosicché una volta il focus si fissa sulle spalle, un’altra volta sulle gambe, un’altra sul seno, e via sezionando? A ben vedere, la narrazione della moda è tutto un susseguirsi di corpi rimodellati con periodica ossessività (od ossessiva periodicità che dir si voglia). Non a caso, è stata coniata l’espressione “zona erogena mutevole”. Quindi… la donna è mobile… o è l’immaginario maschile ad esserlo qual piuma al vento?
Ha osservato acutamente Maria Luisa Frisa in un recente articolo sul settimanale “l’Espresso” (n. 1, 7 Gennaio 2016), dal titolo quanto mai eloquente “Che violenza la moda”: “Non c’è scampo, il corpo femminile è un artificio culturale impastato di paure e desideri. Non è un fatto recente: è sempre stato così. L’artificio è affascinante”.
Negli ultimi anni, inoltre, stiamo assistendo ad un processo di convergenza tra le forme femminili e quelle maschili, nell’ottica di un’apparente esigenza di univocità basica che in verità lascia adito a parecchia ambiguità e altrettanta incertezza. La cosiddetta teoria del gender ha poi sublimato la confusione. La stessa Frisa ha sottolineato che due creativi di razza come Raf Simons e Hedi Slimane sono giunti ad assumere la direzione artistica di maison blasonate quali – rispettivamente – Dior e Saint-Laurent dopo aver sconvolto i codici estetici maschili; parimenti Alessandro Michele, rilevando il timone creativo di Gucci, è parso rinnegare la connotazione erotica del brand per farlo evolvere verso nuovi stadi ancora da focalizzare con chiarezza.
La conclusione è che “improvvisamente lo stereotipo femminile imposto dai media: sesso e silicone, appare superato. Antiquato. Ma è ancora una volta il disegno maschile a definire i contorni del corpo femminile”.
Con questo nostro articolo, scritto con intento construens e non destruens, ossia che non vuole tanto stigmatizzare l’operato degli stilisti, quanto soffermarsi un attimo a razionalizzare le dinamiche creative, si è cercato semplicemente di suggerire che non ha (più) senso porre ai designer la classica domanda sui loro tipi ideali di donna, perché a volte gli ideali possono nuocere gravemente alla salute! Molto meglio ancorarsi alla nuda realtà. Allora, ci piace congedarci con una citazione di una stilista donna, la mitica Coco Chanel, la quale affermava che “una donna dovrebbe vestirsi come la propria cameriera: semplicemente”. Chi vuole intendere intenda.