Chi di prezzo ferisce..…
Si parla spesso di abiti, stili, sfilate; non si parla abbastanza di moda come settore che oggi, a livello globale, sta subendo profondi cambiamenti (strutturali e congiunturali insieme). Per farsene un’idea, basta pensare al turnover di direttori creativi che ha animato le maison negli ultimi mesi, con pezzi da novanta sballottati da destra a manca in balia dei flutti (o meglio, dei flussi) contabili.
Sì, l’industria fashion è irrequieta e le sta provando tutte per trovare un nuovo “centro di gravità permanente”, per dirla alla Battiato. Prezzi esagerati, strapotere dei social, finanziarizzazione dell’economia, gigantismo degli eventi e delle campagne pubblicitarie dei grandi marchi (mentre i piccoli stanno a guardare), isteria collettiva dei saldi su cui ormai si concentra il grosso degli acquisti, consumatori sempre più smaliziati ed oculati nonché spossati da anni di crisi… E se a tutto ciò si aggiungono le bizze del meteo che ci fa quasi saltare a piè pari l’inverno con i capi pesanti chiusi nell’armadio, possiamo farci una vaga idea del Maelström in cui la moda si dibatte.
Dobbiamo poi considerare un altro aspetto, non per rincarare la dose, ma per mettere in campo quanti più fenomeni in atto e capire in quale direzione ci si sta muovendo. Il marchio inglese Burberry ha deciso di abbattere il concetto di stagionalità, organizzando d’ora in poi due sole sfilate con l’unione di menswear e womenswear (durante le edizioni della London Fashion Week di Settembre e di Febbraio). L’obiettivo è di aprirsi ad un consumatore globale interessato ai social media e desideroso di indossare immediatamente i capi visti in passerella. Infatti le collezioni saranno acquistabili subito (dicesi subito!) nei punti vendita fisici e online, cosicché si annullerà il gap di alcuni mesi tra presentazione e disponibilità.
Non è da meno Tom Ford che pure ha annunciato di voler proporre il menswear e il womenswear Autunno-Inverno 2016-17 all’inizio di Settembre, in contemporanea alla consegna dei capi negli store. Lo stilista americano ha spiegato: “In un mondo sempre più veloce l’attuale sistema di presentazione quattro mesi prima della vendita è antiquato e non ha più alcuna ragione di esistere. Stiamo spendendo enormi quantità di denaro e di energie per mandare in scena eventi che suscitano clamore molto prima che le collezioni siano a disposizione del mercato. Un cambiamento in questa direzione sarà sicuramente utile a dare una spinta alle nostre vendite”.
La moda europea ha reagito a tali mosse “in direzione ostinata e contraria” (copyright: Fabrizio De Andrè), ovvero affermando quanto segue per bocca dei suoi massimi rappresentanti istituzionali: per Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, l’esigenza delle nostre case di moda è quella di mettere la creatività in primo piano; d’altronde bisogna evitare “una perdita di appeal dei brand emergenti, impossibilitati ad aggredire il mercato dall’assenza di un’adeguata struttura industriale alle spalle”. Gli ha fatto eco da oltralpe Ralph Toledano, Presidente della Fédération française de la couture du prêt-à-porter des couturiers et des créateurs de mode, che ha proclamato: “Non credo che saremo comandati dalla tecnologia né che la tecnologia affosserà l’industria. La sposeremo e sapremo trarre da essa il meglio. Il design, la creatività e l’artigianato avranno sempre un ruolo da protagonisti”.
Passando al capitolo prezzi, dobbiamo riconoscere onestamente che da qualche tempo non sono più congrui né logici, specie quelli legati a marchi che vivono quasi solo di immagine. Con i chiari di luna del nostro tempo (in cui la crisi economica non molla), c’è sì una nicchia di straricchi disposti a spendere in “specchietti per le allodole”, ma il resto dei consumatori se ne guarda bene e, semmai, punta soltanto sui saldi. Non a caso una decana del giornalismo di moda come Paola Bottelli va ripetendo che “andrebbe fatto un ripensamento generale sui listini: se a prezzo pieno si vende così poco, i flussi finanziari vanno a picco. E rischiano di mettere fuorigioco tutta l’industria della moda”. Intanto in Italia gran parte delle boutique tradizionali – sottocapitalizzate, spesso alle prese con il ricambio generazionale, prive di chance in termini di credito bancario, con fatturati relativamente modesti e comunque insufficienti a permettere significativi investimenti – hanno dovuto chiudere i battenti, stritolate dalle spire competitive della distribuzione organizzata, delle catene di fast fashion, dei monomarca degli stilisti.
La crisi ha cambiato il modo di ragionare della gente, per cui ora i dettaglianti devono sforzarsi di proporre articoli che, oltre ad essere “belli e ben fatti”, possiedono una precisa destinazione d’uso: i clienti non sono più meramente definibili come “aspirazionali”, né capricciosi, tanto meno distratti e ancor meno astratti. Certo, possiamo pur sempre contare su tanti turisti stranieri disposti a spendere decine di migliaia di euro per una borsa in pellami pregiati cucita a mano, ma…
Ora, se non ci si riposiziona a 360°, scoppierà un’altra “bolla”. Vediamo le vetrine piene di prodotti con prezzi di gran lunga superiori al loro valore intrinseco e siamo consapevoli che non esiste più un pubblico che vuole e compra queste cose, attirato soprattutto dallo status symbol del logo.
Una via d’uscita?
Devono abbassare le penne i marchi costruiti solo con la forza dell’immagine: comunicazione, celebrities, passerelle ed eventi, ossia un sistema di alimentazione di sogni e illusioni che fatalmente fa lievitare i costi del prodotto. Per limitare i danni, alle aziende della moda non resta che tornare a lavorare a testa bassa sulla qualità, sul servizio, sulla coerenza del brand rispetto ai contenuti dell’offerta. In altre parole, esse devono tagliare sui costi dell’intangibile fine a se stesso, per focalizzarsi sul prodotto e sui valori dell’heritage. E, parallelamente, non possono permettersi di trascurare la distribuzione. Come sintetizza il Professor Salvo Testa, Responsabile della Piattaforma Moda della SDA Bocconi, “la gente deve poter trovare il pezzo che ad essa piace in tutti i canali distributivi: dalla piccola boutique al department store, dal monomarca a Internet. La forza di una buona rete distributiva sarà sempre di più la multicanalità”.