Diamanti puliti grazie al Kimberley Process
Negli ultimi anni, lo sviluppo più significativo nel campo del commercio diamantifero è stata l’adesione di molti Paesi, compresi quelli dell’Unione Europea, al “Kimberley Process“, un accordo globale per giungere ad una certificazione omologata dei diamanti venduti in tutto il mondo.
Tale provvedimento, così definito dal nome della città sudafricana dove è stato siglato, è entrato in vigore internazionalmente il 1°Gennaio 2002 con l’obiettivo di bloccare il traffico dei “diamanti di guerra” grazie a severe procedure di attestazione dell’origine legale delle pietre.
Con l’espressione “diamanti di guerra” si indicano le gemme utilizzate per finanziare le più brutali guerre civili ed i più violenti gruppi terroristici del mondo.
Secondo stime attendibili, circa il 3% dei quasi 8 miliardi di dollari generati ogni anno dal business diamantifero era prodotto, fino a qualche tempo fa, da diamanti “sporchi”. Si pensi che negli anni ’90 solo in Angola il gruppo di ribelli anti-governativi Unita è riuscito a rastrellare quasi 4 miliardi di dollari, grazie al traffico di diamanti, finiti nelle mani di “signori della guerra” che li hanno investiti in armamenti. E lo stesso scenario tragico si è ripetuto nella confinante Sierra Leone.
Dopo i terribili attentati newyorkesi dell’11 settembre 2001 e le indagini sulla rete finanziaria di Bin Laden, divenuto nel frattempo un big investor in commodities come diamanti ed oro, il Kimberley Process è davvero giunto come una manna.
Gli Stati dell’Unione Europea, che sono tra i maggiori acquirenti mondiali di diamanti dopo gli USA, già nel 2002 si sono impegnati a fissare standard nazionali per l’acquisto “etico”.
Nella UE non esistono dazi d’importazione per i diamanti, eccetto che provengano da Angola e Sierra Leone, per i quali si richiede un certificato d’origine. Ma fino a poco tempo fa non era difficile trovare scappatoie, come l’esportazione attraverso un Paese africano connivente verso uno europeo con controlli meno rigorosi. Per le norme comunitarie il diamante risulta esportato da quest’ultimo, catalogato in base alla provenienza e non all’origine, e può quindi circolare liberamente nel mercato unico.
Nell’Unione si è avvertita, quindi, l’imprescindibile esigenza di creare degli organismi di controllo sul commercio delle gemme provenienti dai Paesi in conflitto. E sembra che il mondo intero si sia mosso, dopo anni di ipocrisie e connivenze, se si pensa che anche gli Stati Uniti, molto lenti nel recepire controlli sui diamanti “sporchi”, hanno rapidamente approvato il Clean Diamond Act, la legge sui “diamanti puliti”.
Fra gli altri provvedimenti adottati a livello mondiale contro il traffico di diamanti “sporchi”, ricordiamo l’approvazione da parte del World Diamond Council (l’Ente che riunisce i più importanti organismi mondiali del settore) di un sistema di certificazione per garantire la trasparenza del mercato: in particolare, i delegati dei Paesi membri hanno deliberato le modalità per corredare ogni transazione di diamanti grezzi di un apposito certificato.
Parimenti, la Confederazione mondiale della gioielleria (Cibjo) ha ratificato in sede congressuale a Monaco una risoluzione che afferma l’impegno degli Stati aderenti a non commerciare i diamanti dei conflitti e la piena adesione al Kimberley Process per assicurare la provenienza legittima delle pietre grezze. Inoltre, Cibjo ha accolto una risoluzione analoga per la tanzanite, in virtù dei collegamenti riscontrati fra il traffico della gemma e determinati movimenti terroristici.
Infine, l’accordo ha ricevuto il nullaosta anche della World Trade Organization (WTO), che ha autorizzato i paesi aderenti a rifiutarsi di importare diamanti di origine non certificata.
W il Kimberley Process, dunque.
Se si riuscirà, come si sta riuscendo, a far funzionare anche in terra d’Africa il sistema di certificazione di cui la UE ed alcuni altri Paesi nel mondo si sono dotati, il cerchio potrà felicemente dirsi chiuso.