Una storia tutta al femminile: la Maison Curiel
Una storia di eleganza, un domani di eleganze
«Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato»
(Friedrich Wilhelm Nietzsche)
Di tutte le maison italiane, Curiel è una di quelle che ha maggiormente inciso nelle vicende dell’estetica italiana con uno stile puntuale, sicuro, riconoscibile.
Un alfabeto visivo che si traduce in un linguaggio estetico fortemente connotato. E come ogni linguaggio, lungo una linea temporale che riporta a più di un secolo fa, si è costantemente aggiornato, ha creato neologismi vestimentari e ha adottato formule nuove, pur rimanendo fedele a se stesso.
Una vocazione: la multidisciplinarietà, ovvero la connessione a discipline diverse, dalla storia dell’arte alle culture d’altrove. Una missione: rendere belle le donne con una moda che esalti senza mai sopraffare, che valorizzi senza mai esibire, che esprima raffinatezza senza mai essere leziosa. Non a caso Raffaella Curiel cita spesso un pensiero di Ivan Bilibin, pittore russo del primo ‘900: «Che cosa rende attraente un vestito? Vi sono una quantità di cose come la bellezza del movimento e la bellezza della serenità».
Movimento, bellezza, serenità. Concetti che ritornano senza sosta nella saga, tutta al femminile, di quattro generazioni. Dalla Trieste mitteleuropea di Ortensia Curiel, zia di Gigliola Curiel, il cui atelier è accanto alla libreria di Umberto Saba, nasce una sensibilità cosmopolita e un senso della leggiadria che coincide con la definizione che Italo Calvino, nelle Lezioni americane, dà della leggerezza: «autorevolezza senza peso».
Da lei arriva la nipote Gigliola, che fin da ragazza dimostra passione e intraprendenza, tanto da aprire nel 1945 una sua sartoria a Milano, prima in via Durini, poi in via Borgogna. Ben presto diviene un imprescindibile punto di riferimento per le signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia che s’innamorano di quegli abiti fluidi che emanano uno chic quieto ma definito, esprimono estro e millimetrica tecnica sartoriale, irradiano quel piacere felice delle cose che migliorano con il tempo. Nell’Italia del boom economico dei tardi anni Cinquanta e dei Sessanta, gli abiti Curiel sono protagonisti nelle prime alla Scala e nei ritrovi dell’alta società durante i riti officiati nei luoghi più prestigiosi e riservati della città. In un certo senso, lo spirito e il carattere della milanesità – una categoria dell’animo prima che geografica, fatta di equilibrio, sobrietà e un pizzico di follia – si riveste nei mitici abiti “Curiellino”. Abiti corti, svelti, mercuriali, «fatti di nulla» e quasi sempre neri, virtuosismi di couture sussurrata, sofisticatissimi nell’apparente semplicità. Sono modernissimi e dal fascino senza tempo. Autrice di un Made in Italy prima che sia coniata l’espressione “Made in Italy”, Gigliola Curiel è la prima stilista italiana a concedere un’esclusiva al prestigioso department store Bergdorf & Goodman a New York e da Harrods a Londra. Nel 1961 la raggiunge sua figlia Raffaella, meneghinamente detta “Lella”. Solida formazione culturale, dopo un periodo di studio da Balmain, già nel ’65 disegna la prima collezione e cinque anni dopo, in seguito alla prematura scomparsa della madre, apre il suo atelier in Corso Matteotti, dov’è tuttora. Si propone come stella dell’allora nascente prêt-à-porter, ma il successo è tale che Raffaella decide di sfilare anche con una linea couture. È l’86 quando decide di affrontare anche la kermesse romana dell’Alta Moda.
Le sue clienti hanno nomi altisonanti, rappresentano il Gotha della mondanità globale, ma lei si rifiuta di farne i nomi, «non sarebbe elegante». Trapela, in quegli anni, una convocazione da parte di Hillary Clinton che amerebbe molto vestire Curiel, ma non può perché il protocollo delle First lady impone loro di vestire solo abiti di designer americani. È proprio nel “laboratorio alchemico” della couture che si concretizza l’ossessione di unire stimoli diversi che confluiscono in quella che lei ribattezza “Moda-Cultura”. Ogni défilé è un omaggio a pittori come Klimt, Goya, Velasquez, Van Gogh, Schiele, Beardsley, Depero, Vermeer… Ma anche collezioni-tributi all’arte africana, a quella russa, all’Inghilterra dei Tudor, all’India dei Maharaja, al Messico di Frida Kahlo. Anticipatrice della tendenza attuale a cogliere spunti e stimoli là dove si sente vibrare il bello in ogni manifestazione, Raffaella Curiel raggiunge livelli sartoriali inimitabili: i plissé, i ricami quasi in tre dimensioni, le riproduzioni su sete pregiatissime di opere d’arte diventano una sua cifra, prima che stilistica, intellettuale.
«Ciò che ha colpito particolarmente la mia fantasia, soprattutto nell’ambito del mio lavoro, è stato il dilungarmi nei miei innumerevoli viaggi, a vedere “sfilare” persone d’infinite etnie, di svariate provenienze, d’incredibili differenze di costume».
Eppure rimane sempre se stessa e offre dei “classici” – dai tailleur ai leggendari abiti da sera – una rilettura innovativa. La storia la premia: nel 1984 è nominata Commendatore, nel 1985 Grande Ufficiale della Repubblica, nel 1995 riceve l’Ambrogino d’oro, nel 1997 il Cavalierato di Gran Croce della Repubblica Italiana. Nel 2002, sfila a Roma a Palazzo Farnese, con una collezione couture ispirata a Victor Hugo, unica stilista italiana invitata all’ambasciata di Francia in Italia.
Nel ’94 la figlia Gigliola Castellini Curiel comincia a lavorare con Raffaella in atelier. Studi alla Bocconi in Economia e Commercio e contemporaneamente, una smisurata passione per la concezione della moda trasmessa dalla mamma. Solo quattro anni dopo, debutta con una linea di prêt-à-porter con molti punti vendita in Italia e all’estero, dalle linee nitide e dai materiali preziosi. Anche Gigliola riceve molti riconoscimenti: il premio “Moda sotto le stelle” ad Ascona nel 2006, un anno dopo il premio “Milano Donna” e nel 2009 il premio internazionale “Amici di Milano per i Giovani”.
Ora è a fianco di Raffaella Curiel sia nella parte creativa, sia in quella più imprenditoriale: posizione che svilupperà con ancora maggior impegno nel ruolo di marketing supervisor del brand dopo l’acquisizione da parte del gruppo RedStone per perpetuarne la creatività e il “saper fare”. Un patrimonio da arricchire e amplificare per estrarne visioni contemporanee. Sempre italiane. Anzi: sempre milanesi