Abito e corpo: un “dialogo” fondamentale
La moda e più precisamente l’abito, considerati nella loro funzione più effimera, sembrano limitarsi a mettere in risalto l’aspetto fisico della persona, potendosi così definire un accessorio in grado di regalare al corpo una forte carica estetica.
In realtà c’è molto di più; l’abito –è il caso di dire- riveste il corpo di significati, quelli che derivano dalla percezione che il soggetto che lo indossa ha della sua dignità; quelli che scaturiscono dalla sua appartenenza ad un ambito sociale; quelli che rispecchiano la cultura di cui si nutre; tutti quelli per i quali il soggetto costruisce appunto il suo personale guardaroba, il suo stile, perché lo rappresenti in quegli ambiti sociali in cui si muove.
Vestirsi, portare un capo di abbigliamento, scegliere un determinato stile, diventa sul corpo un linguaggio; la prima espressione di sé del soggetto che l’indossa, e anche la prima che l’interlocutore percepisce; il più immediato, anche se superficiale, “attacco” –come per una sinfonia- di una relazione interpersonale che si svolgerà poi secondo altre percezioni ed intendimenti più ampi e profondi di quelli che l’abito da solo può raggiungere. Perché in fondo, anche se dobbiamo assegnargli una certa importanza -ed è ciò che tenteremo di fare con le nostre osservazioni-, il linguaggio dell’abito, quelle “parole” che può comunicare del soggetto, è un balbettio a confronto della ricchezza che le relazioni personali possono costruire ed esprimere. L’abito permette al corpo e quindi alla persona di “vivere”, “possedere” uno spazio. Intendiamo con ciò uno spazio sociale, anche se spesso si tratta di uno spazio fisico con significato sociale, luogo dove si intrecciano relazioni. L’abito ci rappresenta in società, dice qualcosa della nostra identità e cultura, ma è anche un biglietto di presentazione che legittima la presenza in quello specifico spazio sociale.
Quando la moda -o altre motivazioni- spogliano il corpo, lo disumanizzano, lo rendono in certo modo impersonale, lo riducono a semplice manifestazione dell’appartenenza sessuale, sulla base della quale non è possibile stabilire una relazione personale significativa che risponda alla capacità dell’individuo di esprimersi secondo le sue possibilità sociali, culturali e secondo la sua dignità: esprimersi cioè per mezzo di quel linguaggio sociale, ricco di gesti e di espressioni che coinvolge tutta la persona, al quale comunque appartiene anche il vestirsi.
L’uomo nasce nudo. Subito gli viene dato un nome che lo identifica ed un abito che non è solo protezione del corpo ma qualcosa che lo identifica e lo immette in un contesto sociale – una famiglia in cui era atteso-. Il vestito attesta che il neonato appartiene alla specie umana: gli animali non ricevono un abito, al massimo si rivestono di peli o di piume. Una annotazione “cronologica” primordiale nella storia della persona che ci indica comunque un carattere essenziale, importante dell’abbigliamento, il suo legame con l’identità personale: il vestito “trasforma” il corpo nudo del neonato nel corpo di un individuo appartenente all’umanità, ad un contesto sociale e familiare; ci parla di un individuo in relazione, cioè di una persona.
Questa osservazione sulle prime ore di vita dell’individuo ci segnalano il rapporto tra corpo, abito e identità personale.
Ci sono comunque altre osservazioni da fare. L’abito è un modo di “vivere”, di “possedere” il corpo, di caricarlo di significato. Il corpo nudo, in quanto tale, di per sé non ha significati, non parla, non è in grado di comunicare nulla della persona, a meno di utilizzarlo come superficie su cui scrivere la propria identità, un modo per raccontarsi e raccontare il proprio stile di vita. I tatuaggi più o meno permanenti hanno questa funzione. Nelle società primitive esprimevano qualcosa della identità e della dignità della persona, poi sono stati utilizzati come strumenti di identificazione o di comunicazione di appartenenza a determinati ambienti -per esempio per i galeotti o seguaci di sette segrete-; in alcune epoche persino i cristiani hanno utilizzato i tatuaggi di segni religiosi per dichiarare la propria fede. Negli anni sessanta–settanta, quando è esplosa la moda del tatuaggio, potevano indicare l’appartenenza ad una sottocultura, per esempio gli hippy. Oggi hanno perso i significati legati alle appartenenze o all’identità della persona; sono pura moda, una funzione estetica, a imitazione degli artistici tatuaggi temporanei all’henné sulle mani e sui piedi in uso nelle popolazioni indù e nord-africane.
Il corpo nudo, privo ad esempio del capo e quindi del viso, non è in grado di identificare l’individuo: in quel caso si cercano segni particolari, una cicatrice, un neo, ecc. che permettano di determinare a chi apparteneva il corpo in questione e sappiamo che talvolta è l’abbigliamento o un accessorio di abbigliamento a dare una pista per la identificazione. Quell’abito indosso a quel corpo era della tale persona, in quel giorno quella persona indossava senza dubbio quel tipo di abbigliamento, quell’anello era sempre al suo dito.
Nella moda l’incompletezza del corpo parzialmente scoperto -non ha senso in questo ambito parlare di corpo totalmente nudo dal momento che l’abito non può rinunciare ad essere un rivestimento per il corpo- si lega immediatamente alle note della sensualità e nelle forme più estreme dell’erotismo. L’incompletezza del nudo rimanda al corpo totalmente nudo, gli abiti che lasciano scoperto il corpo hanno una carica di sensualità più o meno elevata secondo l’estensione e le parti del corpo che lasciano scoperte. Il corpo parzialmente scoperto può essere più sensuale, quindi più seducente di un corpo totalmente nudo, perché il totalmente nudo non lascia spazio all’immaginazione o meglio al desiderio, mentre il parzialmente nudo accende il desiderio. In una colonia di nudisti il corpo nudo è fine a se stesso, non possiede un linguaggio, non manda nessun messaggio, neppure quelli legati alla sessualità. Tra i nudisti l’eros è spento.
Il corpo nudo ha certamente la capacità di esprimersi attraverso una sua propria gestualità che però non può andare oltre una intensificazione del linguaggio della sessualità, a meno che la relazione di due corpi non abbia altri spazi di espressione e comunicazione che coinvolgono totalmente le persone in questione. Stiamo parlando della nudità dei corpi nella relazione sessuale sorretta da amore reciproco tra le due persone.
Si può obiettare che anche il corpo vestito può avere una sua carica di sensualità forte, ad esempio quando sottolinea o enfatizza gli organi sessuali perché rimanda anche questo al corpo svestito. E’ vero. Ma la funzione dell’abito non è quella di nascondere il corpo, sì di rivelarne o suggerirne la forma, abbellirlo, renderlo attraente fino a desiderabile. Perciò può valere ancora oggi l’ affermazione della costumista statunitense Edith Head -8 Oscar e 35 nomination-“ Un abito dovrebbe essere stretto abbastanza per mostrare che sei una donna e sufficientemente morbido da provare che sei una signora”.
L’abito può essere considerato tutt’uno con il corpo, quasi una seconda pelle. Come il corpo “racchiude”, “ protegge” l’intimità personale, l’abito -nel momento in cui è indossato- “racchiude e protegge” l’intimità del corpo. Rappresenta per il corpo quello che una porta o una finestra è per la casa, protezione della intimità familiare, protezione dello spazio di libertà che è l’interno della mia casa. L’abito fa si che il corpo rimanga mio, non esposto allo sguardo altrui, l’abito dice che il corpo non è “oggetto” pubblico, merce esposta, a “disposizione” di altri. L’abito, è chiaro, non è il pudore –qui ci riferiamo al pudore sessuale dato il legame che stiamo stabilendo tra corpo e abito- ma è lo strumento del pudore cioè lo strumento che dichiara agli altri la mia personale percezione dell’alta dignità del corpo, del mio corpo. Tale dignità può non essere percepita e quindi si presenta fragile, priva di difese e di argomentazioni proprie a fronte di altre manifestazioni del mio essere personale, intelligenza, sentimenti, ecc. e perciò va protetta. Da chi? Protetta da me stesso/a, dall’ostentazione che io stesso/a posso fare del mio corpo offrendolo allo sguardo altrui con una operazione che, separando il corpo da altri componenti della mia persona, lo riduce a mero oggetto di godimento. Protetta poi dallo sguardo altrui, che può essere portato, data la fragilità della dignità di esso (corpo), ad oggettivizzarlo e a guardarlo in modo strumentale al proprio desiderio. Se viene a mancare il legame tra corpo e persona, il sentimento del pudore viene a mancare, e l’individuo facilmente offre alla visione altrui il suo corpo nudo.
In fondo il pudore, nel suo significato antropologico, non necessariamente morale, è questo: il sentimento di una necessaria protezione di qualcosa che è al tempo stesso intimo, fragile e individuale.
Come il corpo “esprime” -attraverso lo sguardo, il sorriso, il muoversi, il gesto- l’interiorità, così l’abito con la sua forma o la sua foggia è in grado di esprime molto di sè: chi si è o chi si vuole apparire. Attraverso l’abito la persona cerca di definire la sua identità in modo che la rappresentazione sociale che offre di se stesso sia soddisfacente per sé, ma anche compatibile con l’ambiente in cui opera e quindi soddisfacente anche per gli altri.
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