Le fonti di ispirazione dei bijoux Casalaschi
Nella prima metà del XX secolo la bigiotteria (così come la gioielleria) francese ispirò in modo determinante quella italiana, e ciò appare ben evidente esaminando gli oggetti conservati nel Museo del Bijou di Casalmaggiore. Ancora oggi, del resto, quanti lavorarono in quegli anni nelle aziende locali, a cominciare dalla premiata fabbrica del pioniere Galluzzi, ricordano i numerosi viaggi compiuti Oltralpe dai dirigenti per approvvigionarsi di schizzi, disegni, campioni da riprodurre.
Vale la pena, quindi, evidenziare nell’evoluzione stilistica della nostra bigiotteria i principali filoni di influenza transalpina che si succedettero, quasi di decennio in decennio, nella prima parte del Novecento: dall’Art Nouveau allo “stile ghirlanda” di Cartier, passando per l’Art Decò e la moda dei bijoux blancs anni ’30, fino alla voga del modello in simil-oro giallo negli anni ’40 e ’50.
All’inizio del secolo la bigiotteria italiana in generale continuava a prediligere come “musa” il glorioso passato, improntata ad un eclettismo ottocentesco che evocava per lo più motivi neorinascimentali, neobarocchi, neorococò. Tuttavia, fatalmente anche qui filtrarono le tendenze espresse dai maggiori movimenti di avanguardia internazionali, a cominciare dalla dirompente Art Nouveau. Quest’arte ornamentale, radicalmente nuova (1895-1915), si affermò in Italia con il nome di Liberty o Stile Floreale, in notevole ritardo rispetto agli altri Paesi. La manifattura casalasca, evitando gli eccessi formali di quella francese o austriaca (Secessione viennese), sfornò bijoux dalle linee sinuose e spaziate, “a colpo di frusta”, dai temi naturalisti, caratterizzati dall’onnipresenza di forme vegetali, animali e pure umane (volti di donna, corpi nudi allacciati, ecc.), dai colori pastellati, compiacendo alla ricerca di estetismo propria dei tempi, che già emergeva nelle opere del poeta Gabriele D’Annunzio.
Era, in effetti, un canone che ben si addiceva alla bigiotteria, prediligendo il valore artistico del pezzo piuttosto che quello dei materiali. Si caratterizzò, in particolare, per un certo ostracismo nei confronti di orecchini e braccialetti, e per un favore spiccato concesso a diademi, fermagli, spille, fibbie per cintura, colliers, valorizzando in particolare la medaglistica.
Dopo il suo momento di massima diffusione, il gusto modernista venne però contestato proprio in patria, in quella Parigi borghese che andava sempre più evocando uno sfarzo alla Luigi XVI, con dovizia di fiori, ghirlande, serti di alloro, nastri, fiocchi, gale, nappe, festoni, cordoncini e via dicendo. Si aprì, così, la strada allo stile Decò, che in Italia conobbe la sua stagione più piena tra la fine della Grande Guerra e il 1925 circa. Era giunto il momento di una donna nuova, più consapevole di sé, intraprendente e sportiva, che mostrava le gambe e ballava disinvoltamente il charleston, con i capelli “alla maschietta”, il bandeau sulla fronte e l’abito agile. Le fogge dei bijoux si adeguarono alla moda, la quale, con i capelli corti, privilegiava orecchini pendenti, mentre le braccia nude consigliavano l’adozione di braccialetti, e lunghi sautoirs con glandes ondeggiavano maliziosi fino all’ombelico.
Tuttavia la nostra bigiotteria – per quanto condividesse il nuovo spirito, le forme semplici e geometriche che tradivano l’influsso cubista e recepivano la tematica del Futurismo marinettiano – raramente raggiunse la sofisticatezza di quella francese, restando piuttosto imbrigliata in una cultura populistica e nazionalistica.
Si trattava per lo più di bijoux piatti, dalla composizione simmetrica, dai moduli squadrati, dall’aspetto semplificato, spesso con colori forti e contrastanti, che richiamavano i Fauves, talvolta l’arte africana e precolombiana e, certamente, le audaci scenografie dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev.
Come inevitabilmente accade nelle vicende del gusto, dopo tanto colore imposto dall’Art Decò, ritornò imperioso il desiderio di un candore generalizzato. E ancora una volta fu Parigi, con l’Esposizione al Palais Galliera nel 1929, a decretare la nuova moda dei bijoux blancs, destinati a dominare tutti gli anni ’30.
Anche da noi il gioiello bianco si diffuse con successo, rendendo un must la spilla “a placca”, con struttura rettangolare, ovale o esagonale, tempestata di cristalli brillanti. Molto apprezzati furono altresì i braccialetti: modelli a fascia, costituiti da una successione di elementi stilizzati.
Il succedersi di mode in bigiotteria (sulla falsariga di quanto accade con la gioielleria) è spesso influenzato dai fattori economici ed ambientali del momento, ma la tendenza che negli anni ’40 si affermò fu condizionata in modo decisivo dalla tragedia della guerra. Ne sortì uno stile i cui prodromi, sollecitati anche da una certa onda lunga della crisi americana del ’29 (approdata in Europa con qualche anno di ritardo), si potevano riscontrare già a metà degli anni ’30. Si trattava, comunque, di una produzione davvero accattivante, dalla raffinata esecuzione artigianale, che privilegiava il ritorno alla linea curva e ad una nuova plasticità, dovuta ad un sensibile aumento dei volumi e ad una tridimensionalità che li avvicinava alla scultura, con l’oro protagonista indiscusso di questo filone. Trionfarono le clips, agevolate dalle scollature quadrate degli abiti, le spille, da appuntare sui revers dei tailleur-uniforme, i braccialetti, per lo più ispirati a ruote dentate o cingolati (perciò denominati tank), gli anelli massicci, di foggia maschile, e una miriade di bijoux adattabili a più usi (clips che potevano diventare decorazioni di colliers o combinarsi a spille, ecc.). Tra i soggetti più rappresentativi figurava un nutrito bestiario, espresso con realismo e plasticità, ma non mancavano altre tematiche come fiocchi, piume, cornucopie, drappeggi, riccioli e così via.
Anche negli anni ’40 la Francia, perfino durante l’occupazione germanica, mantenne la sua forza trainante, continuando a fungere da “musa” per la produzione italiana e, nella fattispecie, casalasca. Negli anni ’50, poi, fu Christian Dior ad imporre il New Look, che restituiva alla donna tutta la sua femminilità. Il design si fece sempre più sontuoso e leggero nello stesso tempo, con un repertorio decorativo basato generalmente su temi naturalistici come fiori ed animali, col metallo lavorato in forma di fili lisci o ritorti o intrecciati come corde, operato in guisa di stuoie e tessuti, con abbondanza di ciondoli e pendagli, per esaltarne levità e movimento.
Solo col “miracolo economico” degli anni ’60 l’Italia riuscì finalmente a far sbocciare la propria vena creativa straordinaria, emancipandosi stilisticamente dal modello francese e trionfando nel mondo.
Peccato che proprio allora la parabola della bigiotteria casalese scendesse in picchiata, per mai più risalire.