Per non dimenticare. Un omaggio a Vincenzo Ferdinandi
Chi è stato grande ed ha reso grande qualcosa è degno di stima e di ricordo.
Conservare la memoria è un dovere; è il mezzo con cui custodiamo quello che consideriamo prezioso. Quando facciamo memoria, richiamiamo un evento, un fatto, qualcuno che appartiene al passato, lo facciamo perché le sue tracce sono presenti ancora oggi, ed esse ci aprono al futuro perché ciò di cui facciamo memoria oggi è portatore di senso per il futuro, per una ragione molto semplice: perché il futuro necessariamente prende le mosse dall’oggi. Non esiste un futuro privo di un qualche legame con il passato.
Un discorso retorico? No! Celebrare gli anniversari, ad esempio, aiuta a mantenere la memoria, a onorare chi è stato una figura di rilievo e può offrire ai giovani un esempio da imitare. Niente di strano quindi che lo spunto di un pezzo commemorativo su Vincenzo Ferdinandi, considerato tra i fondatori dell’Alta Moda Italiana -nel 2014 il museo Maxxi di Roma all’interno della mostra “Bellissima” lo annovera tra i pionieri della Moda Italiana-, sia stato il centenario della sua nascita il 29 novembre 2020.
Prima di affrontare lo scritto di questo articolo ho cercato fonti di studio sulla sua figura. La sorpresa è stata non trovare il suo nome in un celebre e consultatissimo dizionario sulla moda. Non è citato tra coloro che presero parte alla sfilata del 22 luglio 1952 nella Sala Bianca di Palazzo Pitti; è nominato invece all’interno di una voce riservata a Oriana Fallaci. Lo ritroviamo tra le righe del pezzo dedicato all’ Italian Fashion Service -organismo nato nel dicembre del 1951 dalla convergenza tra Ente Moda di Torino e Centro Moda di Milano-, quando viene commentata l’accusa rivolta a questo Ente di essere stato ispiratore della nascita del Sindacato Italiano Alta Moda.
Ferdinandi, infatti, diede vita nel 1953 assieme ad altri couturier romani (Simonetta, Schuberth, Fabiani, sorelle Fontana, Giovannelli-Sciarra, Mingolini-Guggenheim, Garnet, Veneziani), al Sindacato Italiano Alta Moda in polemica con le condizioni poste dal Marchese Giorgini per partecipare alle sfilate della Sala Bianca e perché “Roma vale Firenze”, come ebbe a dire Simonetta Visconti, intendendo così rivendicare per Roma il primato di capitale della Moda Italiana.
Non mi azzardo a dare una spiegazione definitiva per questa “dimenticanza”: potremmo forse rintracciarne i segni nel fatto che, con l’affermarsi del prèt-à-porter, Ferdinandi si era allontanato dal mondo istituzionale della Moda e agli inizi degli anni ’60 addirittura aveva deciso di abbandonare le passerelle per continuare esclusivamente con il lavoro nel suo atelier e fino all’anno della sua scomparsa. Questo volontario allontanamento potrebbe averlo posto in una zona d’ombra nel mondo scintillante della moda.
In relazione alla sfilata della Sala Bianca del 1952, c’è un episodio che sollevò polemiche e ostracismo nei suoi confronti, e che evidenzia il carattere anticonformista -ma anche la chiaroveggenza-, del couturier romano. In quella sede, sfidando veti e convenzioni dell’epoca, fece sfilare per la prima volta su di una passerella internazionale una modella di colore, l’americana Dolores Francine Rhineey. Oggi sarebbe osannato per la sua “politica” di inclusione; per rendersene conto, basta consultare Inclusion and Diversity Manifesto della Camera Nazionale della Moda Italiana e prestare attenzione a tutte le iniziative e i proclami in tal senso. Rimanendo su questa sua caratteristica di precursore di atteggiamenti e modalità oramai consolidate nei nostri giorni, ricordiamo che fu uno dei primi a capire l’importanza, da un punto di vista di notorietà ed economico, che gli accessori, borse, scarpe, cinture e profumi portassero il nome del brand: oggi gran parte del fatturato di molte maison è legato alla vendita degli accessori.
Fissiamo meglio l’attenzione sul personaggio prima e poi sul suo stile.
Vincenzo Ferdinandi nasce a Newark città dello stato del New Jersey in una famiglia di origine napoletana trasferitasi negli stati Uniti agli inizi del ‘900 dove aveva aperto una sartoria; lì apprende i segreti del mestiere che da più generazioni appartiene al suo nucleo familiare.
Si trasferisce a Roma a metà degli anni ‘40, lavora nella sartoria di famiglia in via del Babuino dove consolida le sue capacità sartoriali; trascorre un breve periodo presso l’atelier di Fernanda Gattinoni, lì viene apprezzato per il suo estro creativo e lì affina il suo stile e approfondisce l’arte del taglio.
Nel 1949 è chiamato da Christian Dior per una collaborazione stilistica. L’esperienza parigina è forte -sono gli anni di Fath, Schiapparelli, Balmain, Chanel- e lo segnerà in modo significativo; e inoltre si stabilirà tra i due -Dior e Ferdinandi- una amicizia/stima reciproca. Dior titolò una sua collezione “Ferdinand”, il che suonò strano all’epoca. Si trattava di un nome maschile usato per una linea femminile; viceversa, lo vedremo più avanti, Vincenzo non si adombrò quando Dior vinse un Oscar grazie a un suo tailleur.
Con la sicurezza di quanto assimilato a Parigi, si sente forte per aprire un suo atelier di Alta Moda in via Veneto. Nel 1951 sfila a Londra e sigla un contratto per il mercato inglese con la Clark & Morland Ltd, creando una collezione di stravaganti calzature, elemento accessorio a cui dedicherà molta attenzione.
Abbiamo già accennato che il 22 luglio 1952, a Firenze, è fra gli stilisti invitati da Giovanni Battista Giorgini per la storica sfilata nella Sala Bianca a Palazzo Pitti e nel ‘53 è tra i fondatori del Sindacato Italiano Alta Moda. A partire dagli anni ’60 abbandona le passerelle e dal ’63 si concentra esclusivamente nel lavoro creativo per il suo atelier; lavorerà come consulente per diverse industrie di abbigliamento in Italia e all’estero. Muore a Roma il 22 aprile 1990.
Molti sono stati i riconoscimenti conferiti alla sua arte e alla sua creatività; Vogue Usa nel settembre del 1952 lo definì “a star tailor” non perché i suoi abiti sono stati indossati da molte donne del jet set di allora, ma per la perfezione assoluta dei suoi tailleur. Vestì tra altre, Ingrid Bergman, Sandra Dee, Rhonda Fleming, Eliette Von Karajan moglie del direttore d’ orchestra, Virna Lisi, Anna Magnani, Gina Lollobrigida, Sylva Koscina, Lucia Bosè, Ilaria Occhini, Elsa Martinelli, Marta Marzotto, Ljuba Rizzoli, Eloisa Cianni (che fu Miss Italia nel 1952), Simone Bicheron (moglie di Curd Jurgens) e May Britt (moglie di Sammy Davis jr.).
Lui stesso racconta un significativo episodio legato al cinema che evidenzia la fama e la stima di cui era portatore. Jennifer Jones indossò un suo tailleur nel film “Stazione Termini” diretto da Vittorio De Sica. Ricorda Ferdinandi, “Jennifer mi disse che voleva un tailleur che la facesse sentire a proprio agio durante le riprese del film, ma ne aveva già uno di Dior che gli aveva fornito la produzione. Sottolineò che avrebbe però tranquillamente scelto il mio se le fosse piaciuto di più. E così fece. Con quel film Dior vinse l’Oscar per il miglior costume e – da vero gentiluomo – mi confidò: Vincenzo, a bòn retour…”.
Qual è la cifra stilistica di Vincenzo Ferdinandi?
La sua notorietà è legata al taglio impeccabile dei suoi tailleurs, alla rigorosa sartorialità della confezione, alla cura quasi maniacale dei dettagli -diceva che in un abito un singolo punto può fare la differenza-: linee pulite, cuciture quasi assenti, punto vita segnato, spalle piccole appunto senza cuciture e senza imbottiture; una lunga sequenza di bottoni che servono a modellare il tessuto sul busto; il tessuto accompagna il corpo femminile esaltandone le forme senza mai costringerlo. Calza a pennello per i suoi tailleur, sempre comodi ed eleganti, un’affermazione della costumista statunitense -8 Oscar e 35 nomination- Edith Head: “Un abito dovrebbe essere stretto abbastanza per mostrare che sei una donna e sufficientemente morbido da dimostrare che sei una signora”. Il tailleur, quelli di Vincenzo lo sono in modo particolare, può essere un capo rigoroso, addirittura severo, ma è decisamente femminile e seducente.
Ferdinandi amava la sobrietà, il rigore, l’esattezza quasi geometrica non solo nei tailleurs ma in tutte le sue creazioni sempre eleganti e femminili. Non era però minimalista. Sceglie i tessuti migliori che trova sul mercato, in modo che assecondino l’esecuzione perfetta del capo. Le sue creazioni sobrie di dettagli aggiuntivi hanno movimento grazie ad arricciature, incroci del tessuto, ricchezza del collo, ampiezza della manica, sfondi, ecc.
Lui che era un estroverso, seppe conferire, a chi indossava i suoi abiti, un guizzo di originalità e “frivolezza” con originali cappelli da lui stesso disegnati, i celebri “tamburelli” impreziositi da ciondoli o dettagli in visone, le elegantissime “pagodine” di velluto e le piccole “cloches” di feltro fumo di Londra.
Ai suoi abiti da sera, indossati da molte donne dell’alta società italiana e internazionale, aggiunse la ricchezza dei gioielli quando nel 1954 avviò una collaborazione con Buccellati per l’atelier di Roma e di Milano che aveva inaugurato nello stesso anno 1954.
La “Linea 1950” segna un punto di partenza verso il successo e la pienezza della sua maestria. Dare nome ad una collezione era di prassi ieri come oggi ed è quindi interessante seguire l’evoluzione dello stile di Ferdinandi attraverso i nomi delle sue collezioni perché esprimono e sintetizzano il pensiero che presiede alla creazione ed unisce i vari capi, dando coerenza all’intera collezione. E’ del 1952 la “Linea Fionda”, il cui filo conduttore è la scollatura a V avanti e dietro; la “Linea Arpa” è del 53, morbida e avvolgente come il suono delle corde. La “Linea Flabello” del 1954 è significativa di una nuova creatività: la ricchezza del tessuto è sul busto e crea talvolta importanti risvolti, talvolta le spalle scendono morbide con taglio kimono. Anche nella collezione “Sfinge” Vincenzo presenta nuove soluzioni: le maniche sono sostituite da mantelline che partendo dal collo scendono sul retro coprendo il braccio.
E veniamo a parlare del colore tanto decantato e a cui era particolarmente affezionato, con molta probabilità per ragioni familiari e non solo estetiche: è una tonalità di rosso di cadmio scuro tendente al porpora, denominato borbonico. La storia familiare assicura che fu un avo, sarto alla Corte dei Borbone a Napoli ai tempi del Regno delle Due Sicilie, a dedicare questa particolare nuance ai reali e che perciò fu definita “Rosso Borbonico”.
Tante le considerazione che si potrebbero fare sul nostro personaggio, importante testimone del tempo d’ oro della moda nel mondo. Tenere viva la memoria di ciò che è scaturito dalla creatività di Vincenzo Ferdinandi è un atto dovuto. Farsi carico di questo, arricchisce ulteriormente e induce al desiderio di tramandarne e condividerne la meraviglia.
Si, poiché la memoria è radice della cultura nel conservare la tradizione di cui la stessa cultura si alimenta. Esse infatti, memoria e cultura, sviluppano un senso di appartenenza, instaurano un rapporto tra le generazioni -quelle passate, le presenti, le future-, forniscono all’ individuo e alla comunità i presupposti per definire la loro stessa identità.