La poesia del Tempo. Rintocchi di bellezza nel cuore di Milano.
La più importante collezione italiana di orologi si trova al Museo Poldi Pezzoli di Milano, dove è stato messo a punto un allestimento all’avanguardia tecnologica ed espositiva che risponde ai più aggiornati standard di conservazione e di visibilità dei preziosi manufatti, offrendo una panoramica della storia dell’orologeria dal XVI al XX secolo. In effetti non è da meno, per rilevanza storico-artistica, di alcuni musei europei dedicati esclusivamente all’orologeria e può competere con la collezione del British Museum di Londra.
La Sala degli Orologi era stata impostata all’inizio degli anni ’70 per ospitare la prestigiosa raccolta donata da Bruno Falck, che andava ad aggiungersi ai 19 mirabili modelli acquisiti dal “padrone di casa” Gian Giacomo Poldi Pezzoli. Col tempo, grazie ad ulteriori lasciti, si è andato costituendo un patrimonio eccezionale che oggi vanta circa 500 esemplari. Ci piace menzionare, in particolare, i 200 e passa orologi solari e meridiane collezionati dal celebre architetto Piero Portaluppi, che approfondiremo più avanti. Inoltre, sono presenti una settantina di chiavi di carica.
Grazie a generosi mecenati (tra cui merita una citazione soprattutto Luigi Delle Piane), l’autorevole sede museale negli ultimi anni è andata accogliendo a rotazione mostre di prim’ordine, con materiali sia interni sia esterni, che letteralmente permettono di viaggiare nel tempo e col tempo, visti gli oggetti protagonisti. Si tratta di un progetto che in verità mira a conservare lo spirito identitario del passato proiettandosi nel futuro, esaltando un luogo che, come affermò Patrick Heiniger, grande collezionista di orologi a cui è stato dedicato il nuovo allestimento, deve essere “classico e desiderabile, senza tempo, ma sempre al passo con il tempo”.
Tra i pezzi di maggior pregio esposti al Museo Poldi Pezzoli si annoverano i primi orologi da tavolo e da persona realizzati in epoca rinascimentale e poi curiosi automi tedeschi, orologi smaltati barocchi francesi, orologi notturni italiani e altri deliziosi segnatempo che vanno dal Settecento francese e inglese all’Ottocento svizzero.
Per trasmettere pienamente ai visitatori il fascino di questi orologi è messa a disposizione anche una app touch screen che offre un approccio non solo educativo, ma anche emozionale, porgendone una visione a 360 gradi, macrofotografie dei particolari, filmati degli esemplari più curiosi in funzione: ad esempio, è possibile ammirare il Carro di Diana (un meraviglioso automa tedesco del 1610) che procede al giusto ritmo, la sveglia a candela che si carica come una pistola, l’orologio che si illumina al buio, oppure ascoltare il suono del “robot” barocco che batte le ore con il tallone. In realtà, le nuove tecnologie si rivelano essere sempre più un efficace ausilio per valorizzare i pezzi da museo, scongiurando il rischio che sembrino delle mere “nature morte”. Basti pensare che a Londra, per preservare dal logorio meccanico le storiche pendole della Wallace Collection, il classico ticchettio viene originato da una registrazione digitale (mentre gli antichi meccanismi “riposano”).
Tra gli esemplari più significativi si distingue l’orologio di Jacques Goullons, realizzato a Parigi nel 1650-1660, la cui cassa miniata da Robert Vauquer riprende scene dall’affresco della Battaglia di Costantino contro Massenzio, eseguito da Giulio Romano nelle Stanze Vaticane. Si tratta di un pezzo di grande virtuosismo tecnico e decorativo. Sono rappresentati al Poldi Pezzoli anche molti orologiai che hanno fatto la storia come Abraham Louis Breguet (1742-1823), il più innovativo costruttore di segnatempo della sua epoca anche dal punto di vista della ricerca estetica, di cui è esposto un avveniristico orologio a ricarica automatica del 1785. Non a caso tra i suoi estimatori c’era Napoleone Bonaparte. Tra i modelli più rari e bizzarri vi sono poi il Lover’s eye (destinato a un amante segreto) o quello universale à remontoir di inizio ‘900, che segna simultaneamente l’ora di 43 città del mondo.
Emblemi della complessità per eccellenza, gli orologi sono strumenti in cui la perfezione tecnico-scientifica e l’optimum dell’artigianato orafo si devono coniugare armoniosamente, per offrire capolavori assoluti… paradossalmente senza tempo. Quello scrigno che è il Poldi Pezzoli ce li mostra in tutto il loro valore e ce li declina in tutti i loro valori, consentendo ai visitatori anche una riflessione filosofico-antropologica sul tempo e sul suo fluire.
Un focus meritano, infine, gli orologi solari portatili che costituiscono la pregiata collezione del grande architetto milanese Piero Portaluppi (1888-1967), progettista tra l’altro del Planetario Hoepli, appassionato di astri e di cose belle di questo mondo, che amava raccogliere tra le mura della sua elegante Casa degli Atellani.
Donati al Museo Poldi Pezzoli, 200 di questi poetici segnatempo sono esposti in una sezione ad hoc, dove spicca un raro orologio solare in avorio a forma di navicella (chiamato Navicula de Venetiis), probabilmente fabbricato nella prima metà del XVI secolo per la casa reale di Francia (una volta all’albero della barchetta era appeso un filo con una perla mobile che indicava l’ora sulla stiva).
Tra gli altri oggetti curiosi presenti nelle teche museali vi sono piccoli orologi portatili a forma di libro o inseriti in un anello, in un cuore, in una scatolina per gli aghi, in una pantofola, in una ghianda, in un cappello, in un’arpa, in una penna, in uno scarabeo, in un occhialino e via fantasticando.
Ricordiamo che gli orologi solari sono privi di meccanismi e di lancette, non hanno bisogno di essere caricati e per funzionare necessitano soltanto del Sole.
Definiti anche “meridiane portatili”, questi creativi gioielli sono presenti in Europa sin dall’antichità ed hanno conosciuto la loro massima diffusione tra il ‘500 e l’800.
Dapprima l’orologio portatile era usato in sostituzione o in abbinamento all’orologio meccanico (molto costoso e non sempre affidabile); in seguito, con i progressi della meccanica e la produzione a costi sempre più competitivi, il segnatempo solare andò perdendo importanza fino quasi a scomparire all’inizio del ‘900.
Ne esistono diversi tipi: la maggior parte presenta l’asta (detta gnomone) rivolta verso il Polo Nord celeste e utilizza per la misurazione dell’ora l’angolo orario che il Sole determina nel suo movimento apparente attorno all’asse terrestre (360 gradi in 24 ore). Altre meridiane impiegano invece l’altezza dell’astro oppure l’azimut (l’angolo formato dal piano verticale passante per un astro con il piano meridiano del luogo d’osservazione).
I sistemi orari su cui si basa l’efficacia degli orologi solari sono generalmente due: quello delle cosiddette ore italiche, in auge in Italia e nei Paesi latini, che prevedeva l’inizio del giorno al tramonto e la fine 24 ore dopo; e quello delle ore francesi o oltramontane (utilizzato al di là delle Alpi), in uso nel resto dell’Europa, con il giorno che iniziava e terminava a mezzanotte, come avviene oggi.
Il vero tempo solare di un luogo è diverso da quello segnato dai nostri attuali orologi meccanici (ossia quello del meridiano medio del fuso orario dell’Europa Centrale) e ciò avviene sostanzialmente per tre motivi:
- la differenza fra il tempo vero e quello medio, imputabile principalmente alla diversa velocità del pianeta Terra nel percorrere la sua orbita ellittica attorno al Sole nei vari periodi dell’anno (variabile entro un massimo di 15 minuti primi);
- la differenza fra il tempo vero solare locale corrispondente ad un meridiano di riferimento (per il fuso dell’Europa Centrale è quello che passa per l’Etna) e il meridiano che passa per il luogo di calcolo dell’orologio solare (vale 4 minuti primi per ogni grado di differenza delle longitudini dei suddetti due meridiani);
- l’ora legale nel periodo estivo in cui essa è vigente. Per noi del Terzo Millennio il tempo ha forse perso l’aura poetica preziosa che coglieva in esso Portaluppi, ma “può darsi che fra cent’anni, in regime di meridiane, questo segnacolo diventi l’orologio e che l’architetto Piero senza averlo voluto appaia essere stato l’annunziatore di tempi nuovi, il Battista dell’ultima Rivoluzione, quella che ci riporti alla serenità” (così scriveva Marco Ramperti nel 1921).