Tanto di cappello!
Delizioso era il toque alla Jackie Kennedy della première dame Carla Bruni Sarkozy, indossato con disinvolta ufficialità in occasione della visita di Stato a Londra. Ineffabili gli esemplari di Sua Maestà britannica o delle aristocratiche signore alle corse del Royal Ascot. Interessanti quelli visti sfilare di recente, sia i più stravaganti e oversize (dagli elmetti di Narciso Rodriguez alle architetture di Yohji Yamamoto) che i raffinati modelli di sapore retrò (dal look coloniale di Ralph Lauren alle sinuose tese di Christian Dior).
Ammettiamolo: alla donna contemporanea il cappello piace ancora, ma giù dalla passerella la intimorisce un po’, forse perché “identifica” troppo e pone eccessivamente al centro dell’attenzione. D’inverno, però, quando i rigori stagionali si fanno sentire, o, agli antipodi, d’estate quando il solleone impazza, psicologia e sociologia finiscono in soffitta e i copricapo di lana o pelliccia in un caso e di paglia e stoffa light nell’altro tornano ad imporsi. Analogo discorso vale per i cappelli da uomo, fino alla metà degli anni ’50 ritenuti complementi indispensabili dell’abbigliamento maschile e poi declinati inesorabilmente, da qualche tempo tornati in auge anche nelle versioni più chic (vedasi il revival del feltro by Borsalino).
“Non definiamoli accessori. Sono l’essenza dell’abbigliamento” affermava qualche tempo fa l’arbiter dell’eleganza maschile Beppe Modenese, aggiungendo: “Importanti da sempre, sono diventati indispensabili compagni, con i loro colpi di colore, da quando, dopo le stravaganze del ‘700, i vestiti degli uomini hanno preso tonalità scure”.
Cappello deriva dal latino cappa (cappuccio, mantello), avente origine a sua volta da caput (capo). Il termine ha poi dato vita a molte curiose espressioni che può essere simpatico ricordare. Ad esempio: tanto di cappello (per riconoscere il merito di qualcuno), cappello sulle ventitrè (inclinato su un orecchio), amico di cappello (persona che si conosce appena), prender cappello (impermalirsi), cappello da prete (insaccato suino di forma piramidale). E poi c’è la suora Cappellona, dell’Ordine delle Figlie della Carità, con una grande cuffia in testa, e non mancano i cappelletti emiliani, squisita pasta ripiena ottima in brodo.
“Un tempo, all’inizio degli anni Sessanta, il genere umano incominciò a dubitare di se stesso. Uno degli effetti più spiacevoli di tale crisi fu che le teste si scoprirono: l’uso del cappello quasi sparì” scriveva Iean-Jacques Ably per Hermès. Se ora il copricapo ha riconquistato i suoi diritti tornando ad essere il complemento perfetto dell’eleganza femminile e della sobrietà maschile, esso resta pur sempre, per usare ancora le parole di Ably, “un’insolenza di buon gusto”, ovvero: “E’ la traduzione dello spirito di resistenza nel linguaggio dell’abbigliamento. Senza di esso, il genere umano sarebbe solo un gregge di pecore. Il cappello, affascinante e seducente, simbolo di audacia, è come un calcio al grigiore quotidiano, una sfida alla vita triste e sottomessa”.