Sotto il vestito lo stile
Tra Parigi, Milano e New York, è Londra la capitale della moda che più di tutte in questo momento sembra vitale: una fucina di giovani talenti che sciolgono idee cristallizzate e restituiscono il respiro al mercato, con coraggio e tanta voglia di esprimersi.
Ebbene sì, diciamolo: mentre Parigi, forse un po’ incerta, sceglie di restare ancorata al suo clichè di cornice barocca e scenografica per una moda da teatro, che indossa costumi al posto degli abiti, la nostra Milano, così come New York, appare più sobria e pragmatica, continuando però a declinare lo stesso concept creativo, replicando sine die le solite idee e rendendo asettica la memoria, senza troppi entusiasmi per revival consapevoli.
Ad accomunare i due fronti è, comunque, il difetto di fantasia e ardimento, perniciosamente associato all’avversione al rischio ed all’opzione di comodo dell’omologazione. Chi sembra osare nuovi percorsi, magari riscuotendo un certo successo iniziale, subito si ritrae cautamente, intimorito dall’imprevedibilità del gioco.
E così la moda finisce per de-oggettivarsi, rinnegare i propri dogmi, “filosofare” indulgendo al nichilismo, tutta tesa ad una sorta di astrazione normativa, in cui c’è sempre meno spazio per gli abiti in senso materiale, che così cedono il passo alla mera immagine di se stessi. In questo contesto, paradossalmente, chi produce i tessuti, ovvero la materia prima alla base dell’intero sistema, si trova ad aver ereditato il ruolo di chi fa vera ricerca, arrivando così a creazioni sempre più sofisticate e tecnologiche, per cui il tatto diventa più importante della vista.
Qualche critico si domanda dove sia finito il vestito, eclissato dal “bla bla” della comunicazione metalinguistica che tenta di affabulare l’immaginario, ma che riesce solo a far impantanare i pensieri.
Londra, come dicevo, negli ultimi tempi ha dato l’impressione di voler aprire la porta al futuro, di cogliere esigenze estetiche inespresse, di elaborare con più calma e lucidità nuovi stilemi e concetti e pure di sapersi muovere con maggior dinamismo.
Forse perchè, molti anni or sono, è stata la prima, in fondo, a capire l’importanza dello streetstyle e del suo senso originale: costituire un gruppo tribale attorno ad un cuore di valori (non necessariamente etnici) riferiti ad una sub-cultura desiderosa di far sentire la propria voce e, quindi, di durare nel tempo. In altri termini, gli Inglesi hanno scelto la via dello stile, anzi degli stili, anziché quello della moda trasformando quest’ultima, pertanto, in una sorta di etica light, che offre un sentiero tracciato di senso.
In questo modo, l’abbigliamento, come la musica, è diventato un canale espressivo di aggregazione emotiva (e di coesione ideologica negli anni ’60/’70): un fenomeno che sta alla base del clamoroso successo planetario della più British delle stiliste, ovvero Vivienne Westwood, il cui negozio “Sex” era a Londra un punto di incontro ideale per un ristretto gruppo di giovani che condividevano gli stessi gusti musicali, artistici, vestimentari.
C’è stato un tempo, del resto, in cui alla “strada” hanno attinto in molti a piene mani, da Jean-Paul Gaultier (versione cyberpunk) a John Galliano (gothic), da Moschino (retro mod) a Versace (punk).
E tuttora continuano a praticarla nomi di fama crescente come Katherine Hamnett, Zandra Rhodes e Rifat Ozbek, Pam Hogg e la già citata Westwood, nonché Ralph Lauren e persino Karl Lagerfeld, Montana, Mugler, Sonia Rykiel, i quali talvolta si sono dimostrati incredibilmente abili nel trasferire i segnali e le prassi di un fai-da-te metropolitano in un contesto diverso, con l’obiettivo di produrre altri miti, a minor tasso di provocazione esistenziale.
Si pensi, solo per citare un esempio su tutti, alla giacca di pelle borchiata, emblema dello streetsyle per eccellenza, divenuto per tutti un leit-motiv “classico” sebbene declinato in una varietà di maniere.
Quando le “tribù urbane” hanno finito per mischiarsi, anche lo stile ha cominciato a vivere di assemblaggi, più o meno sapientemente. Oggi in quel di Londra, complici anche alcune ottime scuole di moda, si respira un venticello euforizzante di revival, che sembra riportare in auge lo spirito migliore di quei tempi lontani, traducendolo in un bricolage diverso, risemantizzato alla luce dei mood presenti.