A qualcuno piace colto
Non poteva che destare viva sensazione l’accordo da 25 milioni di euro siglato a Roma dall’imprenditore Diego Della Valle per realizzare in un paio d’anni l’intero piano di restauro del Colosseo, simbolo per eccellenza dell’Urbe e fiore all’occhiello dell’immenso patrimonio storico-artistico italiano. Continuano a risuonare le parole pronunciate dallo stesso patron di Tod’s (nonché di altri brand emblematici del made in Italy come Hogan e Fay): “Non voglio fare un’operazione commerciale. Non vedrete mai una scarpa o una borsa appesa al Colosseo”.
Eravamo rimasti al mecenatismo circonfuso di grandeur di monsieur Pinault che a Venezia aveva aperto al pubblico lo splendido Palazzo Grassi, ma ora Della Valle sta andando oltre, rivendicando il suo legittimo orgoglio di essere italiano, cittadino di un Paese unico per bellezza e cultura, sentendosi pago del solo poter accostare il suo nome a quello di un monumento millenario come il Colosseo appunto. Un gesto di dignità assoluta, non c’è che dire, le cui ricadute in termini di immagine saranno comunque notevolissime in tutto il mondo, a lungo termine.
Così, mentre la Finanziaria taglia le attività culturali, scuote la coscienza collettiva un atto come questo dell’imprenditore marchigiano che ci induce a riflettere sulla posta in gioco della questione culturale, facendoci concludere che ancora più importanti del turismo e del mercato sono i valori dell’educazione, della convivenza, delle opportunità diffuse, ovvero della civiltà stessa della nostra comunità. In tal senso, possiamo affermare quasi paradossalmente che l’arte non è utile, ma è necessaria, poiché significa soprattutto conoscenza e rinnovamento di idee ed esperienze. Lungi dallo strumentalizzarla in modo cinico e trattarla come un lusso fonte di business, Diego Della Valle ci ha ricordato che la cultura deve essere sempre di moda, anzi essere moda, ispirando continuamente la mente e il cuore di chiunque la contempli, a cominciare da designer e stilisti del fashion system nazionale.
Il beau geste di Mr Tod’s dà adito a considerazioni più generali sulle strategie “soft” delle aziende di moda. Qualcuno considera un’autentica “rivoluzione” la culturalizzazione dell’economia, ovvero quel processo per cui l’impresa, superata la logica meramente comunicazionale, mira a sviluppare il capitale simbolico insito nei propri prodotti e marchi, al dì di qualsiasi sponsorizzazione e forma di mecenatismo. Del resto, sono gli stessi consumatori, sempre più critici, che basano le loro scelte su un modello identitario complessivo. Finora, però, troppo poche imprese italiane sembrano essersene accorte ed hanno inserito la cultura nel loro orientamento strategico di fondo (qualche maison si è già distinta, tuttavia, per il suo virtuosismo in tale ambito, vedi Prada o Zegna). Fu Adriano Olivetti, il grande industriale di Ivrea, il primo a crederci, convinto che crescita economica e progresso civile potessero coniugarsi perfettamente. Dopo di lui, le imprese hanno guardato alla cultura per lo più come ad un elemento laterale rispetto alle loro logiche, considerando l’arte al pari di un’opportunità da sfruttare, relativamente efficace (anche per l’arduo calcolo del ritorno economico in termini di immagine e prestigio).
Malgrado la recessione, invece, negli ultimi anni questo tipo di investimento ha conosciuto un’impennata e le aziende più evolute che lo hanno praticato si sono poste obiettivi ancora più ambiziosi del passato. In realtà, hanno capito ciò che i consumatori vogliono e, quindi, hanno deciso di assecondarli dimostrando di essere vicine alle aspirazioni ed ai desideri del pubblico. In tutto ciò va evidenziata, in particolare, la capacità della cultura di recuperare il ruolo di materia prima nel processo produttivo dell’impresa e di darne senso economico, trasformandola in input strategico di sopravvivenza economica. Pertanto, non si investe più in cultura per vili interessi di prestigio sociale (come avviene nel caso delle sponsorizzazioni), ma si posiziona l’investimento stesso a monte della catena del valore.
E’ ormai stato detto da tutti che l’arte, la fantasia, la creatività italiane sono i veri baluardi contro il declino dell’economia-Paese, e possono anzi supportare la competitività del sistema offrendo la merce più ambita: lo stile di vita ed i valori correlati. Né Cina, né India, né Est Europa possono farci concorrenza su questi aspetti. Dunque, nell’economia immateriale di oggi la cultura è l’asset più innovativo ed efficace per produrre valori significativi: essa orienta il mercato, influisce sulle organizzazioni e sull’intero contesto in cui si opera. Ci si potrebbe spingere ad affermare che al capitalismo industriale deve sostituirsi progressivamente il capitalismo culturale.
Le nostre aziende della moda, che più di tutte realizzano e vendono i “significati” che i loro prodotti incorporano, devono capacitarsene e cominciare a fare i conti seriamente con tali fattori. Devono, quindi, passare da una situazione in cui era l’impresa a decidere se dedicare alla cultura parte delle proprie risorse finanziarie ad una situazione in cui il core business include anche la cultura e la pone, anzi, al suo centro, proprio perché questa funge da stimolo per lo sviluppo. Ne deriva la straordinaria importanza delle risorse umane operanti nelle aziende, che devono essere persone capaci di comprenderne il capitale simbolico e di tradurlo, con le loro decisioni, nei marchi e nei prodotti. Utenti e consumatori, in effetti, premieranno sempre più quelle realtà “impegnate” che sanno congiungere impresa e cultura, ovvero crescita e benessere umano dell’intera collettività.