A zonzo per mostre
UNA MOSTRA A COLORI IN RICORDO DI COVERI
“Covery story – Da Prato al Made in Italy”: così si intitola la coloratissima mostra che fino al 18 febbraio anima l’Auditorium della Camera di Commercio di Prato, dedicata ad uno degli stilisti che contribuirono a creare il sensazionale mito della moda italiana anni ’80. Enrico Coveri, che prima di couturier era stato indossatore, fu colui che più di tutti puntò l’arco del suo talento sui colori, manifestando una vera idiosincrasia per le tinte spente e optando per l’esuberanza cromatica dell’estate. Prima di lui nessuno aveva osato tanto, ma questa audacia lo premiò, al punto che a soli 25 anni fu coronato dal successo in quel di Parigi presentando la sua prima sfilata. Era il 1977 e la sua eccentricità stava per conquistare il mondo. Energico, fantasioso e brillante come i suoi abiti, Coveri capì presto l’importanza strategica di diversificare la produzione espandendola dalla moda in senso stretto agli accessori, ai profumi, al design, ai cosmetici, alle pellicce. La mostra in corso a Prato gli rende giusto merito ripercorrendo gli step fondamentali della sua folgorante carriera attraverso disegni, video, campagne pubblicitarie, opere d’arte che l’hanno ispirato e tante foto (con famose top allora all’inizio dell’attività come Claudia Schiffer e Naomi Campbell).
IL CINEMA IN PASSERELLA
Lo speciale rapporto – di osmosi, potremmo dire – tra abiti di scena e personaggi è oggetto della spettacolare mostra “Hollywood Costume”, visitabile al Victoria and Albert Museum di Londra fino al 27 gennaio. Un centinaio di costumi che hanno fatto la storia del cinema sono esposti non come oggetti a se stanti, ma nel contesto per cui sono stati creati, grazie al corredo di copioni, brani di film, musiche, testi esplicativi e molto altro. La mostra londinese, frutto di 5 anni di appassionata ricerca da parte dell’ex-costumista Deborah Nadoolman (suoi gli abiti delle pellicole di “Indiana Jones” e dei “Blues Brothers”), mira a raccontare la storia della mecca hollywoodiana e dei suoi protagonisti attraverso un elemento solo in apparenza secondario e banale come l’outfit, il quale spesso anzi è assurto esso stesso a “personaggio” del film che ha reso “cult” ed indimenticabile, influenzando poi la moda sulle passerelle e nella vita quotidiana. Si pensi agli abiti indossati da Vivien Leigh nel ruolo di Rossella O’Hara in “Via col vento”, ai tubini di Audrey Hepburn alias Holly Golightly in “Colazione da Tiffany”, alle camicie nere ed ai pantaloni a zampa da elefante di John Travolta nei panni di Tony Manero in “La febbre del sabato sera”, agli abiti elegantissimi (per cui si “scomodarono” stilisti del calibro di Ferragamo, Chanel, Prada, Dior) di Glenn Close/Crudelia De Mon in “La carica dei 101”, le deliziose scarpine paillettate di Judy Garland quando interpretava Dorothy nel “Mago di Oz”. E se vi diciamo cappello a bombetta, chi vi viene in mente? (curiosamente Charlie Chaplin – che avrete senz’altro indovinato – per sé non voleva costumisti, preferendo scegliersi da solo gli abiti di scena).
UNA CASCATA DI DIAMANTI
Non solo diamanti, ma anche tanto oro, preziosi rubini, turchesi, zaffiri, perle, le gemme più belle proposte in creazioni raffinate, moderniste, esotiche e déco in uno dei luoghi d’arte più romantici di Parigi: il Musée des Arts Décoratifs. I suoi saloni sino al 10 febbraio 2013 si tramutano in uno straordinario porta-gioie che ospita la retrospettiva “Van Cleef & Arpels, l’art de la haute joaillerie”, dedicata ai meravigliosi gioielli della celebre maison francese. Sautoir, bracciali, collier, spille, orecchini, anelli, ciondoli trovano nella sede museale uno scrigno degno del loro valore, in particolare i pezzi più importanti che furono pubblicati sin dagli anni ’20 su prestigiose riviste di moda, da Vogue Paris a Fémina, da Vogue America e Harper’s Bazaar. Si tratta di sontuose parure floreali e collier a cerniera che hanno abbracciato il collo e i polsi delle teste coronate e delle star del jet set internazionale come Grace di Monaco, Maria Callas, Françoise Hardy, la duchessa di Windsor, Liz Taylor, Soraya. Nell’avveniristico allestimento di Patrick Jouin e Sanjit Manku spiccano alcune mirabili invenzioni messe a segno da Van Cleef & Arpels, tra cui la minaudière in lacca e brillanti che sostituì la borsetta da sera o il “Serti Mystérieux” brevettato nel 1933: una tecnica di incastonatura delle pietre preziose che rende invisibile ogni possibile giuntura o intelaiatura, per cui le gemme paiono giustapposte l’una all’altra.
MODA “IMPRESSIONANTE”
“Prenderò un giornale di moda per capire come si vestiranno le donne dopo la mia morte e questi chiffons mi diranno più sull’umanità futura di quanto non mi dicano i filosofi, i romanzieri, i predicatori, i saggi”. Così scriveva ironicamente Anatole France ed alle sue parole sembrano essersi ispirati gli ideatori della squisita mostra parigina “L’impressionnisme et la mode” allestita al Musée d’Orsay fino al 20 gennaio, destinata poi a volare oltre oceano alla volta del MoMa a New York e del Chicago Art Institut. Finalità di questa iniziativa è descrivere attraverso un’ottantina di dipinti (Degas, Renoir, Monet, Caillebotte, Tissot, Bazille, Manet, ecc.) l’influenza che la moda ha esercitato sull’arte in un’epoca (1865-1885) in cui gli abiti erano uno status symbol, o meglio un segno di distinzione di una società borghese lussuosa e mondana, in una Parigi che si avviava sempre più a diventare Ville Lumière. Sfilano così in mostra cappelli e guanti, scarpe e ventagli, bastoni da passeggio e parasole, oltre agli abiti naturalmente, e vari figurini di moda, tutti disposti in modo magistrale dal canadese Robert Carsen. Vi fanno eco dalle tele le scene condite di fresco realismo della bella vita cittadina raffigurate soprattutto da Manet, Degas, Renoir (quest’ultimo figlio di un sarto e di una tessitrice), attenti illustratori della “robe du matin”, della “toilette d’après-midi”, della “robe de grand diner” e “de bal”, nonché del mondo che vi ruotava intorno, dalle modiste ai parrucchieri, senza trascurare gli uomini, anch’essi sempre più sensibili ai codici di urbanità. Un’annotazione tecnica infine: sorprende osservare come sovente i grandi impressionisti accennassero appena i volti per concentrarsi sull’abbigliamento, a riprova di quanta importanza attribuissero al costume.