Abiti a righe? Al diavolo!
Chi si interessa di moda non potrà non trovare quanto meno affascinante la figura di Michel Pastoureau, docente alla Sorbona di Parigi, divenuto il massimo esperto di colori al mondo. Per coltivare la sua passione, l’estroso professore ha dovuto – ça va sans dire – avvicinarsi al mondo dell’abbigliamento studiandone le variazioni cromatiche come espressione sociale e culturale. Per lui nessun colore ha un significato assoluto, ma muta a seconda del tempo, della geografia, dell’economia, del sapere e del gusto. Ad esempio, mille anni fa in Europa il nero non era segno di lutto, mentre in Giappone tuttora alla morte è associato il bianco; e se in Occidente il colore oggi preferito è il blu, questo era stigmatizzato dagli antichi Romani, che lo consideravano barbaro (si legga “Blu, storia di un colore”, Ponte alle Grazie, scritto da Pastoureau, che è anche autore di un saggio sul nero).
Pastoureau sostiene che il colore è prima di tutto un fenomeno culturale dotato di un proprio linguaggio e simbolismo, su cui influiscono la moda, l’arte, la religione, che a loro volta condizionano la società e il modo di pensare. In proposito, risulta particolarmente interessante il suo libro “La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati” (Il Nuovo Melangolo), in cui egli indaga come la rigatura nel vestiario sia stata per tanti secoli giudicata “diabolica”, disprezzata e screditata in ogni modo perché ritenuta appunto tessuto del demonio. Si prenda il caso dei Carmelitani che indossavano, a differenza di altri ordini monastici, un mantello a righe ed erano perciò giudicati “trasgressivi”, in combutta con l’Anticristo, tanto che un Papa, Alessandro VI, arrivò a chieder loro espressamente di cambiare “look”. Questa avversione non solo popolare nei confronti degli abiti rigati può essere fatta risalire a certe intolleranze e fobie religiose, che identificavano nel manto a righe un indumento musulmano.
Nell’Alto Medioevo gli abiti rigati cominciarono ad essere imposti a tutti coloro che venivano classificati come devianti – marinai, buffoni, boia, prostitute, infermi, zingari, eretici, ebrei – con la chiara intenzione di “marchiarli” e così escluderli dal consesso sociale. E’ evidente come sotto siffatte disposizioni ci fosse la volontà di discriminare determinate categorie di persone per motivi soprattutto politici, economici ed ideologici.
Bisognerà pervenire al Cinquecento perché la rigatura perda un po’ della sua aura demoniaca e ciò ebbe origine proprio in Italia, dove gli aristocratici veneziani presero al loro servizio molti giovinetti africani e decisero di vestirli a righe per sottolinearne la condizione di “schiavi”; ma col tempo questo abbigliamento acquistò un certo tocco di esotismo, che specialmente gli artisti colsero e rappresentarono nelle loro opere (nella grafica, nella pittura, nel teatro). Non si scordi, comunque, che fino a metà “˜900 camerieri e maggiordomi indossarono il gilet rigato (nato nell’Inghilterra vittoriana e poi diffuso in tutto l’Occidente). E tuttora l’abito a righe è rimasto l’archetipo per eccellenza della condizione di prigionia (resistendo saldamente nell’immaginario di fumettisti e pubblicitari).
L’ultimo libro pubblicato da Pastoureau in veste di storico delle nuances è “I colori dei nostri ricordi” (Ponte alle Grazie), in cui narra con leggerezza soffusa di profondissima cultura le vicende della sua vita sin dall’infanzia, fra le tinte chiassose del pittore surrealista André Breton, le tante scatole colorate della farmacia materna, i dolci variopinti di cui era ed è ghiotto, i quali lo fanno ingrassare costringendolo ad acquistarsi solo abiti neri o blu, ovvero “snellenti”. Gran parte del volume è naturalmente dedicata alla moda, un ambito che ben si presta alla riflessione sul ruolo, sulla storia, sul senso e sul valore dei colori nell’epopea umana.
Pastoureau, che ha anche collaborato col regista Jean-Jacques Annaud nella realizzazione del film tratto da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, nel testo rivela pure molti aneddoti divertenti e particolari curiosi come quello per cui nel Medioevo il colore viola non esisteva ed i maiali erano solo neri. Infine, sapevate che il verde della bandiera italiana è cambiato nel tempo? Lo fece notare a Pastoureau niente meno che il nostro grande ciclista Gino Bartali.