Abito occidentale e abito islamico a confronto
Incontri, confronti e contaminazioni è il titolo di una serie di conferenze tenute a Brescia presso il Complesso di Santa Giulia, area museale Patrimonio UNESCO, condiviso da Fondazione Brescia Musei e Musei Civici con il FAI, amici del FAI e un Ponte fra le Culture. Lo scopo è fornire momenti di riflessione, in cui approfondire la comprensione delle diverse culture, dei loro consumi culturali, delle espressioni artistiche antiche e contemporanee dei paesi di provenienza, con la consapevolezza che il rispetto della diversità non può che nascere dalla conoscenza.
Il progetto è articolato in un programma di appuntamenti, in chiave divulgativa, incentrati su specifici argomenti, che vogliono mettere in luce i parallelismi tra linguaggio artistico occidentale e quello di altre aree geografiche del mondo, cercando di individuare, in alcune occasioni, anche riferimenti a opere o materiali conservati nei musei cittadini.
Nella sala White Room del Museo di Santa Giulia il 19 marzo alle ore 18 si è parlato di:
“Abito occidentale e abito islamico: influenze e loro significato”.
Relatori d’eccezione Roberta Orsi Landini storica dei tessuti e costumi, collabora con molte istituzioni e musei sia italiani sia esteri, curando in particolare per la Galleria del Costume di Firenze diverse esposizioni e cataloghi. Membro del Consiglio direttivo del Centre International d’Etudes des Tissus Anciens di Lione, ha inoltre creato e diretto per molti anni l’attività culturale della Fondazione Arte della Seta di Lisio a Firenze. Attualmente è responsabile del’attività didattica della Fondazione Roberto Capucci.
Bayoumy Amany mediatrice culturale, di origine egiziana, vive e lavora in Italia dal 1993, opera nel campo della mediazione, in tutti gli ambiti, dal mondo scolastico a quello sociale e culturale.
Nel Cinquecento si codifica il sistema vestimentario che caratterizza il mondo occidentale, fondato sulla separazione della parte superiore da quella inferiore della figura. Gli abiti indossati dalle popolazioni dal Nord Africa al Medio Oriente non presentano invece tagli in vita, dando della persona un’immagine unitaria.
In questo incontro si è palato delle origini delle influenze che il modo di abbigliarsi dei paesi islamici ha avuto su quelli europei e le contaminazioni contemporanee che si esprimono sia attraverso la globalizzazione dell’abbigliamento dei giovani, sia attraverso la condivisione di elementi tradizionali come il velo, simbolo comune di castità e pudore.
Risale al 1244 il ritratto funerario di Eleonor di Castillia, cita Roberta Orsi Landini, dove appare chiaramente l’abito confezionato con seta del sud della Spagna con scritte coraniche. Il 500 poi, secolo in continuo conflitto mediterraneo fra cristiani e mussulmani turchi, è testimone, oltre alle sanguinosissime e discutili guerre, di uno scambio culturale e commerciale di tessuti, sete e abiti.
Mentre da una parte la rigida e austera moda spagnola impone abiti chiusi, scatole a trapezio o panciotti imbottiti e impenetrabili, gorgiere galattiche dove la testa pare staccata da un corpo informe e mortificato dalle fogge; dall’altra parte del mediterraneo invece, vediamo tuniche morbide semplicissime, senza taglio in vita, teli unici di stoffe decorate a mano, tagliate in lunghezza e cucite ai lati, fusciacche e turbanti dal fascino irresistibile.
Ed è proprio ispirandosi a questo pratico vestire che la moda occidentale lentamente cambia e lo vediamo negli “habit-chemise” dello stile impero dell’Era Napoleonica.
Ma che significato assume nel secolo odierno la scelta delle donne islamiche di portare il velo, in una società sempre più moderna e tendente alla globalizzazione dell’abbigliamento dei giovani?
Risponde con cognizione di causa ed strema onestà intellettuale Bayoumy Amany, mediatrice culturale di origine egiziana, di salda fede mussulmana da generazioni.
Il Corano non impone il velo. Ci sono indicazioni di comportamento relative alla dignità e al pudore a cui, la donna osservante, deve attenersi. La donna mussulmana, che non subisce condizionamento di altro genere, è libera di coprirsi la testa o no, secondo il proprio sentire. Significa che la cosa importante è che in pubblico, il corpo femminile, si presenti abbigliato in considerazione del dovuto rispetto per sé, per gli altri. In pratica ci sono donne musulmane che non portano il velo, altre che vestono il burqa e cioè il massimo della copertura del corpo femminile. In alcuni Stati di religione mussulmana (Es.: Emirati) infatti, la copertura del corpo femminile, è un’imposizione dello Stato e non una indicazione religiosa.
Ho colto molta dignità, estremo rispetto, orgoglio e una grandissima voglia di scambio e condivisione in questa donna, che concludendo il suo intervento ci ha detto: “Siamo tutte donne, indipendentemente dal nostro modo di esprimerci e di vestire. Siamo uguali e ugualmente grandi!”.