Alla Moda con i Libri
Tangenti, anzi intersecanti la sfera della moda, sono usciti di recente tre libri che ci hanno colpito, pur molto diversi fra loro per tema e registro.
Il primo – il cui titolo di per sé suggerisce la cifra stilistica del contenuto – è “Lezioni di Moda”, pubblicato dalla Fondazione Pitti Discover con l’editore Marsilio e curato da par suo da Maria Luisa Frisa (Collana Mode). Vi sono condensati la sapienza, la professionalità, la sartorialità di una grande vita come quella di Gianfranco Ferrè, scomparso tre anni fa, “l’architetto della moda” per eccellenza, che incantava con l’essenzialità delle forme e la purezza delle linee. Conservati amorevolmente dalla sua collaboratrice Rita Airaghi (ora direttore della Fondazione Ferrè con un ricco archivio a disposizione), i testi delle conferenze e lectures che il celebre designer tenne dal 1994 al ’97 in giro per il mondo – dagli Usa alla Turchia, dal Giappone all’Inghilterra, dalla Cina all’Italia naturalmente – sono ora riportati in un unico volume, che reca in copertina un aereo modello dello stesso Ferrè per la collezione primaverile 1993.
Ma cos’era la moda per questo maestro di stile? Davanti alle platee di studenti, manager, giornalisti, egli lo spiegava ineccepibilmente: “La moda è logica, metodo, sistema. E’ lavoro. Anzi, la moda sono tanti lavori: del disegnatore, del sarto, dell’artigiano, del tecnico”¦ Servono entusiasmo e dedizione. E curiosità intesa come ricerca degli altri orizzonti e delle più diverse realtà di vita. Un consiglio in sintesi? Conoscere e sperimentare, lavorare e sapere esattamente quello che si vuole. E soprattutto, non dimenticare mai che la moda è anche sogno”.
Ma questo libro, oltre alle parole di Ferrè, contiene pure le tante immagini che il Maestro proiettava nel corso delle sue lezioni: foto, schizzi, disegni, cartamodelli. In effetti, per lui fare lo stilista significava soprattutto dare forma ad un’idea, ovvero trasformare un’intuizione in un disegno tecnico e quindi in un abito.
Nessuno come Gianfranco Ferrè ha forse saputo “insegnare” la moda nel vero senso del termine e con tanta generosità, essendosi egli impegnato personalmente a trasmettere (ai giovani in particolare) il suo sapere e il suo mestiere: non si dimentichi che per anni fu docente alla Domus Academy, nonché Presidente dell’Accademia di Brera.
Conquistava gli uditori innanzitutto con la sua fisicità e poi con “l’eleganza dell’anima” (così l’ha definita la giornalista Giusì Ferrè), ovvero quella leggerezza con cui riusciva ad esprimere riflessioni profonde e puntuali, dove cultura e fantasia si sublimavano in sapienza antica, sempre aperta comunque alla ricerca ed alla sperimentazione (egli fu tra i maggiori sostenitori dello studio della moda in ambito accademico e specialistico).
Può essere davvero utile per chi si occupa a vario titolo di moda leggere e meditare i pensieri di questo immenso protagonista del fashion system italiano, proprio in una fase in questo stesso fashion system se da un lato sembra espandersi continuamente come l’universo einsteiniano, dall’altro mostra segni di collasso per non pochi astri. Ferrè deve restare un esempio ed un punto di riferimento preciso per tutti (“squared” si definiva egli stesso) in termini etici, estetici, culturali, umani e professionali tout court.
Il secondo libro che vogliamo segnalare è “Ara Gallant” di David Wills (Damiani editore), che in 130 foto racconta il lavoro del mitico hair-stylist Ara Gallant, uno dei più fantasiosi e visionari “creativi del capello” di tutti i tempi, morto suicida nel 1990.
Nato nel newyorkese Bronx nel 1932, Gallant più che un parrucchiere fu un vero e proprio artista, “scolpendo” le acconciature come fossero statue di alabastro e decorandole con gioielli, fiori, piume, lunghissimi toupet, fino a dar vita a nuvole di chiome vaporose e fluttuanti. Il primo esempio di “flying hair” by Ara Gallant fu esibito dalla celebre modella Twiggy nel 1966, voluto poi da molte altre celebrities del tempo, da Anjelica Huston (che ha anche scritto l’introduzione a questo libro) a Lauren Hutton, dall’allora bimba Drew Barrymore a Veruschka, tutte donne che divennero amiche del loro hair-dresser e gli lasciarono dediche affettuose (riportate nell’appendice dello stesso volume).
Mossi i primi passi negli anni ’60 per i servizi fotografici di “Vogue”, Gallant esplose presto come fenomeno stilistico collaborando con fotografi del calibro di Irving Penn, Bert Stern, Richard Avedon (con quest’ultimo fu talmente in simbiosi che insieme vennero battezzati “Aradon”).
Primo hair-stylist ad essere pagato per le sue prestazioni, ardito pioniere dell’image making, mago del colore, Ara Gallant fin dai primi anni Settanta attuò la metamorfosi da parrucchiere a fotografo di moda, eseguendo ritratti immaginifici, che combinavano scatti di personaggi colti al lavoro (in stile Horst P. Horst) e scenari contemporanei. Trasferitosi poi a Los Angeles negli anni ’80 per fare il regista, convinto dall’amico attore Jack Nicholson, non riuscì a coronare il suo sogno e, depresso, decise di togliersi la vita.
Di lui ci resta soprattutto il “mito” dei tanti trucchi che usava sui set, tutt’oggi molto copiati nel mondo della moda: per i suddetti “flying hair”, ad esempio, egli usava una tecnica basta sull’unione di varie parrucche fissate su un pezzo di cartone reso invisibile dalla chioma stessa. L’effetto volume era ed è assicurato!
Da ultimo, proponiamo il libro “Una giornata moderna. Moda e stili nell’Italia fascista” di Mario Lupano e Alessandra Vaccari (Damiani editore), che rappresenta il primo saggio sulla moda ai tempi del regime mussoliano, allorché tutto – dall’architettura al cinema, dallo sport alla letteratura – doveva servire alla propaganda governativa.
E così la moda del Duce fece del suo meglio per eccellere coi mezzi disponibili, a prescindere dall’autarchia, producendo fantasiosi capi d’abbigliamento e accessori (in particolare restano indimenticabili i cappellini con la veletta, le calze di seta, le scarpe con le zeppe, le cappe e stole di volpe bianca). L’orbace sardo, il cotone proveniente dalla colonia etiopica, la seta pregiata, ispirarono stilisti e sarti, che riuscirono a realizzare abiti rimasti nella storia: si pensi a certe mise da sera in satin bianco indossate dalla spregiudicata figlia maggiore del Duce – Edda (moglie del conte Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri) – spesso fotografata dalla rivista “Vita femminile” ed immortalata perfino dal britannico “Time”, che le dedicò una clamorosa copertina nel 1939. Si tinge di leggenda ancor oggi il suo vestito nuziale firmato Giovanni Montorsi, un designer “mago” del drappeggio orizzontale, in grado di creare capi fascianti il corpo femminile che slanciavano la figura sino a farla sembrare una statua dell’antichità classica. Divenuta una Musa dei grandi sarti-stilisti, Edda con la sua celebrità contribuì non poco ai successi della moda italiana, sebbene non nascondesse una forte passione per la couture d’Oltralpe.
Corredato da centinaia di immagini tratte da giornali dell’epoca e bozzetti delle case di moda, questo libro getta una nuova luce sulla nascita delle maison italiane laddove prima c’erano solo sartorie artigianali, per quanto di alto livello. Gli stessi stilisti cominciarono allora a diventare “personaggi”, facendosi fotografare nei loro moderni e lussuosi atelier, in camice bianco, con aria professionale e nello stesso tempo familiare. Del resto, secondo il famoso manuale di Domenico Caraceni (recante una prefazione nientemeno che dello scrittore Massimo Bontempelli), il sarto doveva essere una sorta di architetto-scienziato che operava sul corpo umano, tracciandone la superficie elegante.
Veicolo dei valori della modernità, la moda fascista doveva svecchiare la nazione anche sotto il profilo politico-economico, gettando le basi di un sistema industriale che qualche decennio dopo sarebbe sfociato e rifiorito nel mito del made in Italy.
Non dimentichiamo che l’abominio delle leggi razziali volute da Mussolini investì anche lo stile, facendo pubblicare su una rivista di moda promossa dal Governo nel 1938 la suddivisione della donna italiana in tre tipologie a seconda della diversa costituzione fisica – alpina, mediterranea, adriatica – che in teoria doveva fornire ai sarti le indicazioni per un ottimale sistema di taglio e cucito.
Infine, annotiamo che negli anni Trenta, complice la location nel teatro della Fiera Campionaria a Milano, nacquero le sfilate di moda come le conosciamo oggi, ovvero con le modelle che camminano tra il pubblico su una passerella verticale (negli anni Venti era orizzontale), benché questa fosse posta molto più in alto rispetto al pubblico. Il passo delle modelle, poi, era ancora piuttosto marziale, ma col tempo cominciò a farsi più rilassato e leggero. L’icona della modernità non poteva più attendere, a dispetto di ogni regime.