Allo IED si progetta l’inclusione
Nel campo della moda il tema della inclusione sta esplodendo al pari della sostenibilità.
Ma cosa si intende con questo termine?
Ognuno di noi apparteniamo ad un gruppo sociale, ad un ambito sociale/lavorativo, una istituzione ed in esse dobbiamo e vogliamo sentirci accolti. Tra gli appartenenti ai vari ambiti però ci possono essere differenze – di razza, sesso, cultura, religione- ma anche ci può essere chi è semplicemente portatore disabilità. A causa delle differenze si può essere oggettivamente esclusi o semplicemente, in modo soggettivo, sentirci esclusi dal gruppo: l’inclusione ha come obiettivo eliminare qualsiasi forma di esclusione, di discriminazione, ma nel rispetto della diversità. L’inclusione pretende non solo integrare la persona in un ambiente precostituito, ma esige un cambiamento culturale all’interno dell’ambiente. È quanto sta suggerendo la Camera Nazionale della Moda Italiana con il suo Inclusion and Diversity Manifesto proprio perché chiede un cambio di mentalità all’interno delle aziende e in tutti i settori che si relazionano con il vasto campo della Moda.
In questa ottica dobbiamo guardare il percorso di progettazione suggerito agli studenti di Fashion designer, all’interno del corso dedicato all’Inclusive and Adaptive Design, che IED (Istituto Europeo di Design) ha introdotto a ottobre 2020 per il secondo anno della specializzazione in Shoes and Accessories Design. Quindi un lavoro di sensibilizzazione e formazione sul tema già a partire dagli anni di studio.
Condotto dai docenti Mia Vilardo e Riccardo Polidoro, il corso di progettazione inclusiva pone l’accento su un processo creativo che porti a prodotti in grado di incontrare le esigenze di tutti, anche quelle di chi non si sente rappresentato dalla moda, tenendo presenti quattro parametri di possibile esclusione sociale – disabilità, etnia, genere, età.
E’ interessante seguire il percorso che i vari team hanno scelto e mettere a fuoco il pensiero all’origine delle scelte creative. Lo riportiamo così come è sintetizzato nel comunicato.
Sul fronte dell’inclusività di genere, il concept di collezione “agender” (di Evelyn Bressan, Alessandro Martella, Sofia Peselli, Roberta Vagnoni) parte dall’idea di corpo come casa, luogo in cui essere davvero se stessi, liberi e nudi: nella storia di quasi tutte le culture del mondo la casa è accomunata dall’utilizzo di un materiale particolarmente malleabile – l’argilla – in grado di prendere qualsiasi forma, proprio come si punta a fare con questa linea di accessori. Così zaini, borse e scarpe sono progettati per fondersi armoniosamente su qualsiasi corpo grazie a materiali termorestringenti e ad una elasticità performante; ogni modello di calzatura è previsto in numerazioni vastissime – dal 35 al 45; l’intercambiabilità di singoli elementi (dalle suole alle chiusure) consente di esprimere la propria personalità pur indossando uno stesso accessorio di base; le chiusure delle borse tramite impronta digitale rafforzano l’idea di individualità, a prescindere dal genere.
Per quanto riguarda la disabilità, c’è chi ha immaginato un brand moda “per chiunque si senta sbagliato o non interamente rappresentato”. JFMP – Joy for mistaken people (proposta di Penelope Bazzani, Michela Polo, Jennifer Rossi, Federica Santangelo) lavora nello specifico sulla cecità e l’ipovedenza. Il concept di collezione By my eyes punta sui sensi altri rispetto alla vista utilizzando materiali dalla superficie irregolare e dettagli in rilievo, ossia elementi in grado di comunicare e far percepire bellezza anche attraverso il tatto. Le indicazioni sui tessuti e i rispettivi colori sono scritti in linguaggio braille, ad ogni tinta è associata un’essenza profumata che consente di comprendere facilmente l’abbinamento cromatico che si indossa (l’azzurro profuma di menta, il grigio di timo, il rosa di pesca). Anche la tecnologia digitale è chiamata in causa: lo stivale Chelse, oltre a prevedere materiali di differenti texture per ogni zona della calzatura (in modo da farne capire la suddivisione col solo tatto), utilizza un GPS removibile e intercambiabile che comunica direttamente con un’app mobile, a sua volta in comunicazione con delle cuffiette attraverso cui l’utilizzatore ascolta le indicazioni circa la strada da percorrere e gli eventuali ostacoli presenti. Stesso principio vale per la linea di occhiali, che oltre a facilitare gli spostamenti grazie al GPS e ai suggerimenti di percorso in cuffia, è in grado di leggere libri ed etichette di prodotti tramite una telecamera anteriore e trasmetterne il contenuto via audio direttamente alle orecchie di chi li indossa.
Sulla via dell’inclusione etnica, il progetto To.get.there – Rebirth lavora concettualmente per “unire” quanto sta alle radici più profonde dell’esperienza umana, ciò che accumuna tutte le culture. Ciò si traduce non solo nella scelta di tessuti realizzati a partire da elementi presenti in natura, ma anche nel riutilizzo, nella macinazione e nella lavorazione di scarti industriali e produttivi per ottenere, con gli opportuni leganti, nuovi materiali di progettazione. “……. una occasione di riscatto, una seconda opportunità può esserci anche per i materiali di scarto che hanno il potere di rinascere in nuovi oggetti”, racconta il gruppo composto da Antonio Boffa, Greta Giampaolo, Alessia Molinari e Irene Molinari. Gli accessori sono inoltre inclusivi perché pensati per risultare interconnessi tra loro: un codice allegato al prodotto consentirà a ogni acquirente di avere un’idea di chi e da quale parte del mondo ha acquistato un prodotto simile, in una simbolica unione tra esseri umani di diverse culture stabilita attraverso scarpe, borse a cappelli.
Il gruppo di lavoro sul tema ageless (Simone Ricetti, Alice Marchetti, Alessandra Natalino, Martina Sagliaschi) ha immaginato AMAS, una gamma di accessori che siano assolutamente perfetti per tutte le stagioni della vita. Cosa accomuna davvero tutti più del gioco? L’idea parte da questa domanda e dalla certezza che la dimensione ludica può attraversare tutte le età. Così ogni accessorio è pensato per essere venduto con una scatolina gioco, un mazzo di carte che ricorda il memory e che suggerisce proprio il tema del ricordo e dei legami che è in grado di creare. Anche calzature e borse, in pelli vegane, rimandano al tema del gioco: le scarpe non solo presentano tacchi relativamente bassi per adattarsi a ogni camminata (e intercambiabili per diverse occasioni), ma sono “animate” da pedine che si ispirano al gioco del Forza 4, libere di muoversi nel tacco stesso; le borse a tamburello, con la loro ironia, riprendono invece struttura e meccanismi dello yo-yo.
Un buon tentativo, quello progettato dallo IED di Milano, di educazione all’inclusione su obiettivi ben definite, concreti e utili; uno in concreto, come la collezione By my eyes, supera il semplice utilizzo di un capo di abbigliamento e si presenta piuttosto come uno strumento tecnico per superare una disabilità.