Astrakan
Tornato prepotentemente di moda nell’ultima stagione, tanto che in molte ci siamo ritrovate a tirar fuori dall’armadio la pelliccia della nonna, l’astrakan deriva il suo nome dall’omonima antica capitale del Turkestan, nella regione di Bukhara (oggi Russia), fondata dai Tartari nel XIII secolo sulla riva del Volga e dotata di una possente fortezza.
Si tratta di agnello persiano dal pelo scuro, tanto docile quanto elegante, facile da utilizzare come un tessuto di seta. Di qui discende il suo fulgido successo, a fasi alterne, nella moda del XX secolo, in particolare grazie alla valorizzazione che ne hanno saputo fare alcuni stilisti: in primis Carlo Tivioli che nel ’71 lanciò i suoi favolosi persiani audacemente tinti, decretandoli “il non superfluo della pellicceria”.
A riprova della “nobiltà” di questo pelo, ricordiamo che gli scià di Persia indossavano un copricapo di astrakan adorno di gemme, così come gli alti esponenti dell’aristocrazia zarista.
Il nome originale di questo agnello ricciuto, in lingua uzbeka, è karakul, che designa anche un lago del Pamir e una località dell’Uzbekistan (oggi più noti per i bellissimi fiori di loto che ornano il paesaggio), dove si è sviluppato l’allevamento di tale ovino, già noto alle antiche popolazioni mesopotamiche. Si ricorda, in proposito, che fra i popoli primitivi l’attrazione irresistibile della pelliccia veniva dalla protezione garantita da essa contro la natura inclemente. Ai nostri tempi, il gusto “animalier” deriva più che altro dal suo assurgere a simbolo di ricchezza, status, sessualità. E qualche volta di chic, come nel caso dell’astrakan appunto.
Oggi il karakul trova un ambiente particolarmente ideale nella regione africana della Namibia, nella quale ha potuto rendere il suo vello ancora più morbido, lucido, ricco di sfumature colorate naturali (oltre al classico nero, anche castano e grigio), duttile per le esigenze più fantasiose degli stilisti.
L’astrakan deve la sua fama, caso mai ce ne fosse stato bisogno, anche ad un bel romanzo di Piero Chiara, “Il cappotto di astrakan”, in cui questo capo d’abbigliamento assurge a simbolo della complessità e del mistero dell’esistenza stessa: tutti abbiamo appeso all’attaccapanni della nostra vita un cappotto di astrakan che ci rende simili gli uni agli altri, sia nel bene che nel male.