Bellissime illusioni
La storia del gioiello di fantasia affonda le sue radici nei secoli XVII e XVIII, e si fonda sugli usi e costumi della nascente classe borghese, desiderosa di conquistarsi un proprio ruolo sociale ad ogni costo, anche per mezzo dell’abbigliamento. E’ grazie ai “nuovi ricchi”, in effetti, che la bigiotteria si impone e si diffonde, fino a diventare un vero e proprio fenomeno di massa, che comporta una produzione su scala industriale. Fino ad allora contavano solo i gioielli veri, emblemi di potere e opulenza, ad uso esclusivo di sovrani, nobili, alti prelati.
La cultura del gioiello “falso”, comunque, è stata concepita e gestita dai gioiellieri stessi, che si sono dedicati con slancio alle sperimentazioni materiche più disparate. Ad uno di loro, in particolare, la costume jewellery è tutt’oggi somma debitrice, vale a dire l’alsaziano Georges Frédéric Stras, da cui prese il nome lo “strass”, la pietra di vetro artistica tagliata e colorata ad imitazione del preziosissimo diamante.
Già gli antichi Romani – come racconta Plinio il Vecchio nel I secolo d.C. – ricorrevano a bizzarre poltiglie di vetro e miele per realizzare gemme somiglianti a quelle naturali, e per vari secoli a seguire gli artigiani orafi si cimentarono con alterne fortune nella creazione di impasti vitrei ad immagine delle pietre preziose. Fu solo grazie a Monsieur Stras, però, che vennero perfezionate la selezione e la combinazione delle materie prime, nonché la tecnica di produzione dei bijoux, poi promossi, valorizzati e commercializzati a livello internazionale, incorporando un valore, più che intrinseco, socio-politico, che conferiva l’illusione di scardinare per sempre le vetuste gerarchie.
Gioielliere di casa reale sotto Luigi XV, provvisto di laboratorio orafo nel cuore di Parigi in Quai des Orfèvres, Stras – benché non fosse l’inventore del diamante artificiale – fu colui che in pratica seppe coniugare e capitalizzare tutta l’arte, l’artigianato e la scienza più avanzata del suo tempo, ottenendo il dosaggio ottimale degli ingredienti: sabbia bianca finissima, nitrato di potassio, potassa, minio, ossido di piombo (quest’ultimo componente inserito nella “ricetta” dall’inglese George Ravenscroft già nel 1676 per garantire una maggiore trasparenza e un miglior gioco di luci: all’epoca furoreggiavano, ad esempio, i cosiddetti “diamanti dei Templari”, fabbricati a Parigi). Tali pietre di imitazione – denominate anche “fusione di vetro” o “ciottoli del Reno” o “sassi di Alençon” o “diamanté” – per quanto facilmente soggette a scalfitture, assai meno sfavillanti dei diamanti autentici, incompatibili con una montatura “a giorno” e più adatte ad un castone chiuso – si prestavano alle stesse lavorazioni di quelle preziose ed offrivano comunque un eccellente colpo d’occhio. In particolare, venivano tagliate in un’amplissima varietà di modi, persino a “brillante” (con le 57 sfaccettature che il veneto Vincenzo Peruzzi aveva approntato per primo agli esordi del “˜700).
Come vergava Stras medesimo in una sorta di annuncio pubblicitario ante-litteram, egli “possiede il segreto della produzione di fondi in argento e in tutti gli altri colori. Abile nel colorare tutti i tipi di pietre sì da farle assomigliare a quelle dell’Oriente. Vende polvere d’oro di prima qualità ed invia – con riserva – diamanti ed altre pietre preziose, lavorate o grezze, in maggiori o minori quantità, a chiunque ne faccia richiesta. Tutto a prezzi molto vantaggiosi”. Nato nel 1701 non distante da Strasburgo, Georges Frédéric Stras ricevette i primi rudimenti di arte orafa in questa città, prima di approdare nella capitale francese, dove completò la sua formazione e, dopo alcune esperienze al servizio di altri gioiellieri, aprì una propria bottega, gestendo per quarant’anni una florida attività. Morì nel 1773, troppo presto per vedere realizzato uno dei suoi sogni: la liberalizzazione delle professioni, che venne decretata nel 1791, assicurando un sostanziale riconoscimento professionale per i creatori di gioielli falsi ed espandendo enormemente il mercato di tali “orpelli” (nel 1767, tuttavia, in Francia era già stata istituita la prima corporazione dei fabbricanti di monili finti).
Il provvedimento di liberalizzazione, che accelerò il processo di industrializzazione dei bijoux, dalla Francia si estese poi alla Prussia (1810), all’Austria (1859), alla Germania (1868), Paese quest’ultimo in cui venne messa a punto la prima macchina molatrice per tagliare le pietre (a Gablonza nel 1892), che attirò l’interesse commerciale delle principali maison di gioielli di fantasia del Continente, ovvero Trifari, Hobé, Eisenberg. Poco lungi nel tempo e nello spazio un allora semi-sconosciuto Daniel Swarovski avrebbe avviato una sua azienda di molatura, trasferita presto in Alto Tirolo, destinata a divenire nel tempo un colosso vetrario noto in tutto il mondo, che ancora oggi porta vanti la tradizione artistica e sociale dello strass, tenendo alta la bandiera del gioiello di costume, con tutto il suo portato di illusione e di cultura.