Björk al Moma: un’opera d’arte vivente
Per capire perché il celebre Moma di New York (Museum of Modern Art) dedichi dall’8 Marzo al 7 Giugno una mostra-evento a Björk bisogna innanzitutto capire chi sia Björk. In effetti la cantante islandese, che ormai conta più di vent’anni di carriera, è una delle artiste più versatili della scena internazionale, che si cimenta con pari talento sia in veste di compositrice-interprete-musicista sia come performer-videoartist, sia come attrice-regista, sia come paladina dei diritti civili e in particolare dell’ecologia. E facendo questo, col suo modo di essere e col suo modo di vestire, questa minuta e stravagante cinquantenne dagli occhi boreali influenza fortemente la moda e i modi del nostro tempo.
Alcuni degli abiti che Björk ha indossato sono entrati nella storia, al punto di essere, in base ad una classifica stilata dal Daily Telegraph, tra i più menzionati di tutti i tempi. Tale è, senza dubbio, quello a forma di cigno con cui presentò alla serata degli Oscar 2001, creato dal designer macedone Marjan Pejoski, che aveva persino previsto il deposito di uova. Un altro costume disegnato per lei da Pejoski è quello rosa a forma di lanterna orientale con cui la poliedrica artista del profondo Nord fece la sua comparsa al Festival cinematografico di Cannes nel 2000.
Impossibile non citare, poi, i modelli del compianto Alexander McQueen, concepiti per lei a cavallo tra natura e tecnologia: ad esempio, la ricordiamo come techno-geisha sulla copertina dello splendido album intimista “Homogenic” in un’atmosfera di erotismo latente, o come sensuale folletto in topless in “Pagan Poetry”, o come una contemporanea Alice con un abito da fiaba-incubo fatto di campane nel video di “Who is it”, oppure come creatura pronta a levarsi in volo nella Cattedrale di S. Paul a Londra mentre canta “Gloomy Sunday” per l’amico-stilista scomparso, indossando un suo abito-scultura con gonna di piume di struzzo e ali legnose color cipria.
In realtà sono molti i fashion designer che hanno collaborato con Björk, condividendone l’aspirazione a plasmare se stessa mutante alla ricerca di un’identità, complici di una metamorfosi senza posa che riflette la sua ansia di intrecci creativi tra arti diverse, la sua sete di sperimentazione, di trasversalità, di innovazione all’inseguimento dell’avventura pura. Senza accennare alle sue performance musicali o di visual arts all’insegna della contaminazione dei generi, ci limitiamo qui al solo look, che può definirsi ora neo-barocco, ora futurista, sempre borderline e provocatorio nel senso più autentico, forse meglio definibile con algoritmi matematici che con mere parole. Lo si comprende chiaramente osservando il costume di scena che Björk usò nel progetto multimediale “Biophilia”: un corpo cristallino ibrido a metà tra il riccio di mare e la medusa, una sorta di gelatinoso mostro degli abissi allevato in un brodo primordiale, tuttavia affascinante, didascalico, teso a scandalizzare per far riflettere sulla deriva degli attacchi all’ambiente.
Per citare qualche altro stilista che ne ha assecondato la visionarietà, ecco Comme des Garçons, Jeremy Scott, Iris Van Herpen, Bernhard Willhelm, Hussein Chalayan, M/M Paris, che di questa sirenetta glaciale hanno fatto un’icona tratta da un quadro surrealista. Si tratta spesso di abiti scabrosi, al limite dell’imbarazzante, se non del gusto per l’orrido, ma che addosso a questa ormai mitologica figura della terra dei geyser appaiono coerenti col suo percorso esistenziale, la sua intelligenza emotiva, i suoi ideali e obiettivi.
La retrospettiva newyorkese su “Björk” (questo semplicemente titolo), organizzata da Klaus Biesenbach, tocca ogni aspetto dell’arte eclettica e sfaccettata della musicista/performer/visual artist islandese: dalla musica agli abiti, dai video ai film, lambendo ogni versante della sua attività, dal disco d’esordio “Debut” (1993) al già citato “Biophilia” (2011) e al nuovissimo, sofferto “Vulnicura” (un viaggio sonoro nel dolore causato dalla separazione dal compagno Matthew Barney), sulla cui copertina la cantante dall’aspetto robotico si mostra col petto coperto da collane di strass, squarciato da una profonda fenditura. L’installazione al Moma è accompagnata da una narrazione biografica e immaginaria scritta dalla medesima Björk in collaborazione con lo scrittore Sjón Sigurdsson, e culmina in un’esperienza musicale e visiva inedita realizzata dal regista Andrew Huang e dal software di progettazione 3D Autodesk.
Il curatore del Moma ha così spiegato la decisione di dedicarle una mostra: «Björk è un’artista straordinariamente innovativa i cui contributi alla musica contemporanea, i videoclip, i film, la moda e l’arte hanno avuto un impatto importante sulla sua generazione in tutto il mondo». Già nel Giugno 2014 il disco “Biophilia” di Björk era stato la prima applicazione per tablet ad entrare nella collezione permanente del Museo newyorkese (la app dell’artista di Reykjavík è stata acquisita dal Dipartimento di architettura e design guidato dall’italiana Paola Antonelli).
Björk sembra dunque riuscita a fare della sua vita un’opera d’arte, come postulava Oscar Wilde e curiosamente anche come dichiarava Giovanni Paolo II nella “Lettera agli artisti” del 1999. Può sembrare un paradosso che l’algida islandese, più attratta dalle saghe pagane e dalle suggestioni sciamaniche che dalle religioni rivelate, si identifichi meglio con il senso delle parole papali. Lungi dal perseguire il mero piacere sull’onda di un estetismo solipsistico, Björk inventa, costruisce, plasma la realtà, ovvero se stessa, secondo la propria vocazione straordinaria, compiendo la quale sente di rientrare in un disegno più grande, che è la massima opera d’arte mai realizzata, immagine di bellezza assoluta.