Buon anno? Sicuramente!
Tra i molti auguri che vorrei rivolgere al mondo della moda per il nuovo anno ce n’è uno in particolare, che non può prescindere da quanto accaduto di recente a Prato, dove 7 Cinesi sono morti carbonizzati nel rogo del dormitorio-gabbia all’interno della loro fabbrica di abbigliamento. Voglia il Cielo – e voglia il nostro cosiddetto fashion system – che stragi di operai come questa non accadano mai più, a maggior ragione nella civile Italia… che non è il Bangladesh, dove qualche mese fa in uno stabilimento tessile in fiamme perirono 1127 persone, soprattutto donne e ragazzi.
Oltre a svolgere indagini sulla causa tecnica dell’incendio, ora si versa qualche lacrima mediatica, si fa un po’ di retorica sullo sfruttamento, si organizzano fiaccolate, si proclamano minuti di silenzio, ecc. ecc., quanto basta per mettere a tacere la coscienza collettiva. No, così non va, così non basta. Ci sono domande che pesano come macigni: perché non si sono obbligati i Cinesi, che a Prato valgono 2 miliardi di euro all’anno, ad operare nel rispetto delle norme? Perché sono rimasti inascoltati gli allarmi che da tempo lanciano le altre aziende – quelle regolari che quotidianamente fanno i “salti mortali” per onorare tutti gli adempimenti? Il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini ha dichiarato che dal 76% dei controlli sulle imprese cinesi sono emerse irregolarità. Perché allora si è permesso che continuassero ad operare al di sopra di qualsiasi legge?
Mette i brividi il fatto che non sia nemmeno possibile identificare i poveri cadaveri, gente entrata clandestinamente in Italia, vissuta nell’ombra e finita nell’ombra, senza un nome né un segno di pietà familiare. Bene ha fatto il Ministro per l’Integrazione Cècile Kyenge ad assicurare che l’Italia compirà passi ufficiali verso il governo di Pechino per affrontare il fenomeno dell’immigrazione illegale. Finalmente, viene da esclamare! La Kyenge ha comunque ammesso che “non è facile lavorare con una comunità che ha le proprie tradizioni e la propria cultura. Occorre cercare il dialogo, fermo restando che abbiamo i nostri principi costituzionali”.
A questo punto si impone un’ulteriore riflessione che coinvolge anche la nostra industria della moda nazionale: quanti avevano interesse a “non accorgersi” della realtà pratese? A quanti, per “tagliare” i costi, fa comodo che la catena della subfornitura sia poco trasparente e controllata? Molti Cinesi – come ampiamente noto – producono capi per aziende che poi li rivendono non solo agli ambulanti dei mercati, ma pure alle catene della grande distribuzione. E noi consumatori finali non ci chiediamo mai cosa ci sia dietro un maglione o una giacca acquistati per pochi euro?
Ci piacerebbe che tutte le aziende della moda, in nome della responsabilità etica, sottoscrivessero un protocollo per la sicurezza e la lotta allo sfruttamento dei lavoratori, impegnandosi a far sì che lungo l’intera filiera venissero garantite condizioni dignitose a tutti. Grandi catene come H&M, Inditex/Zara, C&A, Pvh e Tchibo, che hanno fornitori in Bangladesh, l’hanno già firmato. E sempre più lo faranno, se anche i consumatori dimostreranno di non essere più disponibili ad acquistare da chi se ne infischia del rispetto di seppur minime condizioni di sicurezza.
Comunque il tragico fatto di cronaca di Prato mi ha anche fatto ripensare al libro “Chi ha paura dei Cinesi” (Rizzoli-Bur, 2008) di Mario Portanova e Lidia Casti, che offre uno spaccato sorprendente, per molti aspetti, del lavoro cinese in Italia. I due autori hanno scoperto, ad esempio, che nella maggioranza dei casi gli operai non sono abusati o ridotti in schiavitù, sebbene lavorino per 14 ore al giorno e dormano nei laboratori stessi, come nella vicenda di Prato; la circostanza sconvolgente è che sono sovente essi stessi a scegliere liberamente queste condizioni alla “Oliver Twist” per guadagnare in fretta quanto basta per tornare in Cina e aprire là una loro attività. Quindi per autopromuoversi!
Che certi nostri imprenditori ne approfittino è un altro discorso… Portanova e Casti in effetti hanno considerato il caso tipico di un laboratorio (a Milano) in cui gli operai cinesi lavoravano a cottimo: ogni pantalone cucito fruttava 1,20 euro, che andavano per metà al titolare cinese e per metà al lavoratore (pare che a Prato agli operai andassero solo 0,40 euro a pezzo). Tempi e compensi non erano stabiliti dall’imprenditore cinese, ma da una primaria catena della grande distribuzione italiana! Questi lavoratori dormivano e mangiavano in fabbrica in condizioni simili a quelle di Prato, ma non si sentivano abusati: affermavano di avere scelto di emigrare da clandestini mettendo in conto una vita infame per due o tre anni, allo scopo di guadagnare dieci volte quello che avrebbero ottenuto in patria. E in patria sognavano di tornare presto con il gruzzolo accumulato e di intraprendervi una vita agiata. In quest’ottica, risparmiare i soldi di cibo e affitto, vivendo letteralmente nel posto di lavoro, accelera notevolmente la realizzazione del “business plan”. Anche se ciò non toglie che esistano migranti ingannati dai trafficanti e strozzati dal debito, sequestrati, picchiati, va detto che essi non sono la norma dell’immigrazione illegale cinese in Italia.
Resta il fatto che nel nostro Paese di lavoro si continua a morire, tanto più nelle circostanze in cui operano i Cinesi. Esigiamo che il settore della moda non lo consenta più, a costo di ritoccare qualche prezzo al rialzo, prezzo che i consumatori devono essere disposti a pagare se non vogliono sentirsi a disagio nei loro panni!
Buon anno a tutti allora, un anno davvero buono perché umano!