C’ERA UNA VOLTA LA SPOSA
Secondo una recente indagine di “Modern Bride Magazine”, il budget per le cerimonie nuziali non ha subito contrazioni nonostante la drammaticità della crisi economica globale. In particolare, si spende sempre di più per la luna di miele, il servizio fotografico, gli anelli.
Insomma, se risparmiare è bene, non badare a spese è meglio, almeno quando ci si sposa… nella speranza che di matrimoni nella vita ce ne sia uno solo!
Malgrado molte coppie preferiscano la convivenza, oggi il matrimonio resta per la maggioranza delle persone il giorno più bello della vita, da ricordare per sempre.
Fu solo nell’800, con il trionfo culturale del Romanticismo, che il matrimonio d’amore ebbe la sua piena legittimazione e vennero codificate molte delle tradizioni nuziali tuttora in vigore.
Queste usanze, in realtà, trovano la loro origine più lontana in epoca classica, avendo subito nel tempo un’evoluzione che può essere interessante ora ripercorrere.
L’abito da sposa, ad esempio, era già in auge presso le antiche romane, che lo indossavano – udite, udite – di colore rosso. Si trattava del flammeum, un velo purpureo portato sopra la tunica e appuntato alla testa con una coroncina di mirto. Anche nel Medioevo, in effetti, il rosso, associato all’oro, era il leitmotiv beneaugurante del rito sponsale (ancora oggi in voga in Cina, India, Giappone). Solo nel Rinascimento le tinte si ingentilirono, facendosi pastellate, impreziosite però da inserti di gemme, pizzi, oro (per le spose di ceto elevato, s’intende). Finché il bianco arrivò definitivamente a trionfare nella prima metà dell’Ottocento, grazie soprattutto all’ufficializzazione della tradizione da parte della regina Vittoria d’Inghilterra, che fu impalmata con tanto di velo sul capo.
E veniamo al clou: la fede nuziale, emblema del sacramento stesso, divenuta da semplice cerchietto in ferro al tempo dei Romani prezioso doppio o triplo anello d’oro in epoca medioevale, arricchitosi poi di gemme (diamanti e rubini, simboli rispettivamente di perseveranza e amore), smalti e decori vari nel XVI secolo. Era, quest’ultimo, il celebre “gimmel” (da gemini, gemelli), così chiamato perché i cerchietti erano assemblati in modo da sembrare uno solo, a cui poi nel Seicento venne aggiunto il simbolo romantico delle mani giunte, che talvolta racchiudevano un cuore di diamanti. Solo nel ‘700 si pervenne alla fede nuziale tutt’oggi più in uso, consistente in una mera fascetta d’oro.
Quanto al bouquet, non era previsto per la sposa recarsi all’altare reggendo una composizione floreale. Di fiori, però, la donna doveva essere adorna, in particolare di quelli d’arancio, simbolo di fecondità e armonia. In epoca romana si prediligevano specialmente verbena, rosa e mirto, tuttora molto amati nei Paesi anglosassoni.
Perle e diamanti, simbolo di purezza, costanza, passione, sono sempre state le gemme predilette dalle spose e quante potevano permettersele arrivavano spesso ad eccedere, tanto che a Venezia nel Quattrocento e Cinquecento furono emanate leggi suntuarie per limitare lo sfoggio di monili ai matrimoni. Nel Settecento, invece, era punto d’onore per la famiglia dello sposo poter presentare alla promessa sposa, alcuni giorni prima delle nozze, una lunga collana di perle, che lei poi avrebbe dovuto indossare tutti i giorni nel primo anno di matrimonio (se non si poteva acquistarla, la si noleggiava addirittura).
La bomboniera, invece, fa risalire le sue origini al XV secolo, ma contrariamente a quanto accade oggi, non erano gli sposi a farne dono agli invitati, bensì avveniva l’esatto contrario. Si trattava, naturalmente, di porta-confetti particolarmente preziosi e di gran valore. Anche le suore, quando entravano in convento (e venivano dette “sposine” per l’appunto), erano solite regalare bomboniere (di materiale povero, decorate a pastiglia dorata) recanti l’incisione dello stemma di famiglia. Solo nel Sette-Ottocento la bomboniera diventa l’oggetto che tutti conosciamo, offerto dalla nuova coppia ai presenti alle nozze.
La torta nuziale, d’altra parte, è arrivata in Italia dall’Inghilterra solo ai primi del ‘900. Finalizzata a destare meraviglia teatrale, oltre che golosità, doveva essere a più piani, ricoperta di glassa bianca e decorata con fiori e confetti, rientrando solo così nei canoni di confezionamento.
Il banchetto di nozze così come ci è familiare ebbe il suo antesignano-modello, seppure ineguagliabile per sfarzo, nel ricevimento dato nell’anno di grazia 1600 dal re di Francia Enrico IV in occasione del suo matrimonio con l’italiana Maria de’ Medici. Il menù comprendeva oltre 50 scenografiche portate (castelli di salame, fontane di liquori, ecc.), opera dello chef Giovanni del Maestro. E pensare che si trattava di un matrimonio per procura! Maria de’ Medici dovette “accontentarsi”, infatti, di vedere il suo sposo a cavallo rappresentato da una statua di zucchero, molto somigliante all’originale, che un marchingegno fece emergere dal pavimento, tra giochi di specchi e zampilli.
E infine, incassati i regali (a proposito, pare che la lista nozze sia nata dall’intuizione di un commesso di un negozio di Rochester, negli USA, che era avvezzo ad annotare i regali acquistati per gli sposi), può finalmente cominciare la luna di miele, espressione che deriva dal costume romano di delibare miele nelle feste nuziali (tuttora, anche in alcune zone del Sud Italia, gli sposi si fanno imboccare con un cucchiaio di miele il giorno delle nozze), che in genere oggi coincide con un bel viaggio di coppia. In proposito, lo scrittore Maupassant affermava teneramente: “Rimpiango una cosa sola, il mio viaggio di nozze. Nella vita c’è solo un sogno che si realizzi, quello”. Mentre, il “perfido” Oscar Wilde sembrava rispondergli quando dichiarava: “Le cascate del Niagara sono la seconda grande delusione del viaggio di nozze”.