C’era una volta l’arte nella moda
Arte e moda, due aree di creatività a lungo più parallele che convergenti, si trovarono ad operare su un terreno comune a partire dagli anni ’60, allorché certi stilisti intrapresero la ricerca di un linguaggio più libero e meno convenzionale e, nel contempo, alcuni artisti cercarono di avvicinarsi maggiormente alla vita, con forme espressive quali la body art o la performance.
Da questo confronto dialettico, giocato sulla contaminazione tra cultura alta e pop, centrato sulla forza del simbolo, sui valori dell’effimero e sulla spettacolarizzazione del corpo, uscirono le opere di artisti e designer come Andy Warhol, Christo, Cindy Sherman, Claes Oldenburg, Keith Haring e Gianni Colombo, solo per citare qualche nome.
Sul fronte degli stilisti, i più “dialoganti” con gli abiti furono senz’altro i giovani Pierre Cardin, Courrèges, Paco Rabanne e Castelbajac, impegnati a ricercare nuovi materiali e spazialità. Ad aprire le danze, tuttavia, fu il pioniere (in molti campi) Warhol, che, nel 1961, espose alcune modelle davanti a dei collage di fumetti nei grandi magazzini Bonwit Teller, suggerendo questo come l’American way of life.
Jime Dine, invece, incollò una scarpa da tennis malandata sulla tela, mentre Saint Laurent fuse arte e moda nelle sue grandiose creazioni ispirate a Piet Mondrian, Jackson Pollock e Pablo Picasso, in sostanza liberandosi dal conformismo del “belvestire” ed introducendo dotti elementi d’avanguardia, per fare del corpo lo strumento con cui mettere in scena oggetti non solo di moda, ma di cultura tout court, destinati a sfociare successivamente nella serialità del prêt-à-porter e salvare, così, la moda dalla corruzione dei costumi.
Negli anni ’70 è la tendenza punk a dominare, trasformando il corpo nella sede di sperimentazioni estetiche che rasentano la tortura, con tatuaggi, ferite, tinture, lacci, aghi e spilloni nella carne, in una sorta di riscoperta dell’antropologia barbarica. A conciliare tribalismo e stile ci pensò in seguito Vivienne Westwood, che accanto allo street style impose un recupero della tradizione e della tecnica, anche collaborando con l’artista Keith Haring.
È nei ruggenti anni ’80, però, che si raggiunge la massima simbiosi tra arte e moda, grazie soprattutto al debutto nell’haute couture dei tre nipponici Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, che, con l’artista Yves Klein, danno vita ad una rappresentazione pauperistica della caducità e del nulla, mandando in passerella abiti monacali, paramilitari, incompleti, astratti, che evocano atmosfere metropolitane dalle luci abbaglianti.
Couturier o artisti essi stessi? Non è facile definirli, perché il sentiero concettuale percorso ne fa degli ibridi par excellence, consci delle trasformazioni della società contemporanea, ma nello stesso tempo visionari sognatori.
Oggi, forse, nella moda si avverte un po’ la mancanza di un percorso mentale che procede creativamente dall’arte e viceversa (quanto l’arte può ancora attingere dalla moda?). Ci si domanda se sia l’una o l’altra ad ispirare in misura tanto blanda, ovvero ad aver così poco da dire.
E pensare, per altri versi, che lo scrittore inglese Evelyn Waugh nel suo libro di viaggio Etichette (1930) insisteva proprio sulla capacità della moda di sollecitare la creatività artistica, nella fattispecie letteraria. Scriveva, ad esempio, a proposito delle sfilate parigine: “Le sfilate di moda, fenomeno moderno e commercializzato, mi sembrano la cosa di gran lunga più interessante. Dietro l’industria della confezione di abiti femminili esiste un mondo imperscrutabile, di cui si coglie a volte un allettante riflesso o barlume, e che sembra promettere a chi abbia la fortuna di penetrare in quella società chiusa un ricco e quasi vergine terreno letterario. L’alta diplomazia dei couturiers; lo spionaggio delle copistes; le perfide mogli di senatori che intrufolano le loro ancelle tra le indossatrici; i segreti, gli intrighi, i tradimenti degli atelier; le semplici vite private di mannequin e vendeuses; il genio che in una soffitta concepisce abiti che non vedrà mai per donne bellissime che mai incontrerà; il grande disegnatore che ruba le sue idee; la vita del vestito via via foggiato e modificato e arricchito dall’impatto di ciascuna personalità per la cui mente gli avviene di passare; il suo finale emergere nella realtà: quale universo da saccheggiare! Uno dei problemi acuti dell’autore d’oggi è trovare qualche aspetto dell’organizzazione sociale su cui buttar giù le sue settantamila parole senza plagio manifesto… Perché non un romanzo dove protagonista è la veste, invece di chi la indossa?”.