CIAK, SI GIRA! Un incontro per ricordare Valentina Cortese, Franco Zeffirelli ed i costumi di scena
In occasione della Mostra fotografica “Valentina Cortese – Album di famiglia. Immagini inedite di una diva” a cura di Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti, tenutasi dal 1 al 26 marzo presso lo Spazio espositivo IsolaSET di Palazzo Lombardia a Milano, si è svolto un interessante dibattito sulla storia del costume di scena legato a due anime artistiche straordinarie: Valentina Cortese e Franco Zeffirelli. Classe 1923, entrambi.
In occasione del centenario dalla loro nascita, foto, video e lettere ci hanno raccontato due amici sorprendenti. Un sodalizio artistico ed un rapporto amicale intrisi di stima e rispetto reciproci. Un affetto profondo fatto di confidenze, confessioni, abbracci, cene, serate mondane, e lavori. Lavori altissimi.
Per Valentina, Zeffirelli crea dei cammei cinematografici indimenticabili che Lei si cuce addosso come una seconda pelle. Una protettiva e materna Donna Pica di Bordone, madre di San Francesco d’Assisi in Fratello Sole, Sorella Luna. Una implacabile e algida Erodiade in Gesù di Nazareth. Una rigorosa Madre Superiora in Storia di una Capinera, tratta dal romanzo di Giovanni Verga. E poi, quella magnifica creatura teatrale della Maria Stuarda di Schiller con Rossella Falk che al Teatro la Pergola di Firenze nel 1983 fece scrivere pagine su pagine i giornali. Fiumi di inchiostro rivelarono sceneggiate più o meno veritiere riguardo l’antagonismo e la contesa delle due regine dentro e fuori dal palcoscenico.
Una collaborazione professionale forte e visionaria quella tra Valentina e Franco. Da un lato lei, attrice dalle doti comunicative ed espressive naturali con la sua attitudine ad essere sempre diva; affascinante, coinvolgente e piena di charme. Dall’altro, il Maestro, regista talentuoso e sensibile, esteta sempre alla ricerca del bello assoluto. Zeffirelli teneva in egual misura ai luoghi delle sue rappresentazioni, alle acconciature, alle luci, alle inquadrature e ai costumi; lui stesso ne ha disegnati di bellissimi. Indimenticabile quello ideato appositamente per Maria Callas nella Traviata di Dallas del 1958. Un abito romantico bianco, oro e argento che seguiva gli stilemi della moda di metà ‘800 ma rivisitato in chiave moderna seguendo l’haute couture parigina di Dior che all’epoca entusiasmava le passerelle.
Perché porre attenzione ed interesse al costume di scena?
Perché non è semplice ornamento, ma un mezzo di comunicazione. Il costume di scena trasmette al pubblico significati, esprime il non detto. Un attore che entra in scena, prima ancora di parlare è già personaggio.
L’abito interpreta, oltre al ruolo, un’atmosfera, un momento, un luogo e uno spazio che la stesura drammaturgica o la rilettura del regista tracciano. Ha la funzione di accentuare nella “sua” descrizione l’aspetto del personaggio. Ne distingue la sua storia, il rango sociale, l’età, il sesso. Lo racconta.
Non recita parole ma suscita sentimenti, emozioni, che poi con l’attore prendono vita. Il risultato dovrà dunque risultare corrispondente al reale, ma soprattutto dovrà essere veritiero e profondamente autentico.
Valentina Cortese è l’esempio autorevole di che cosa si intende per “indossare un costume di scena e renderlo credibile”. Con quale trasporto materno indossa le tuniche medievali che Danilo Donati crea per lei in Fratello Sole, Sorella Luna. O con quale imperiosa intensità veste i sontuosi panni di Erodiade nel Gesù di Nazareth disegnati da Enrico Sabbatini e Marcel Escoffier.
E il suo immenso bianco teatrale di Luciano Damiani ne Il Giardino dei ciliegi di Cechov per Strehler? Divina.
Come nasce un costume di scena?
Ho avuto il privilegio di conoscere Anna Anni una delle costumiste predilette da Zeffirelli, una donna ed un’artista del costume straordinaria. Franco la conosceva fin dai tempi dell’adolescenza. Fiorentini entrambi ed entrambi esuli a Roma negli anni ’50 in cerca di fortuna. Convivevano nello stesso appartamento: Zeffrelli, Annina come era solito chiamarla, Piero Tosi e Mauro Bolognini. E gli amici di casa che andavano e venivano giorno e notte, con la porta sempre aperta come raccontava Anna: Paolo Poli, Walter Chiari, Lucia Bosè, Laura Betti …..
Erano già avanti questi artisti del dopoguerra!
Una signora esile e timidissima la Signora Anni; mi aprì le porte del suo appartamento in Via dei Serragli a Firenze in compagnia della sua micia, la Susy. Mi accolse subito come una vecchia amica e immediatamente ci ritrovammo a parlare di una vita fatta di spettacoli, incontri, successi, una vita dedicata alla ricerca e al mestiere di costumista.
Per Valentina Cortese, lei disegnò i costumi della Maria Stuarda di Shiller. Costumi indimenticabili conservati oggi da Fondazione Cerratelli a Pisa. Abiti profondamente storici che Anna Anni investe di luttuosi neri che si accendono poi di un rosso “sacrificale” simbolo del martirio cristiano nella scena della decollazione.
Il mestiere di costumista, mi raccontava, è fatto di indagini, ricerche, studi, analisi e tanto, tanto, disegno. L’iconografia artistica oltre che la storiografia, l’archeologia, l’arte, sono elementi imprescindibili per l’idea creativa di un costumista, anche quando viene chiamato a realizzare costumi non storici ma caricaturali, futuristici o bizzarri. Per il costume, l’autenticità deriva dalla ricerca oltre che dell’idea.
Fare un costume è come fare una scenografia. Visivamente deve aderire con la massima efficacia alla verità del testo e alla verità storica.
Si passa poi al lavoro di studio vero e proprio, con schizzi, disegni, cancellazioni e riprese che porteranno alla realizzazione del figurino. Dopo il lavoro grafico, si parte con gli appunti di lavoro (bozzetti, ritocchi e perfezionamenti per la sartoria), e poi via, via con le sottostrutture: la forma in tela del modello, il taglio dei tessuti, la ricerca del colore adatto, la cucitura, le passamanerie, e la messa in opera.
Un lavoro artigianale realizzato da tantissime mani sapienti.
Infine la prova.
L’essenza del costume sta nella sua portabilità in scena. Ci sono fisicità, corporature e altezze diverse tra attori ed attori. Si tratta di un lavoro fatto di pazienza. Ci possono essere degli “impicci” che rendono necessaria una ripresa dell’abito, modifiche in corso d’opera.
Il costume si arricchirà poi di movimento acquistando consapevolezza nella sua forma fondendosi al personaggio che però non dovrà sovrastare mai. Funzione complicata e dispendiosa, perché, come diceva Danilo Donati:
«Il costume deve servire allo spettacolo, non al costumista. Il costumista si deve annullare, non deve apparire mai; ci deve essere una tale amalgama con tutto il resto che non faccia “vedere” il costume».
Con l’indosso si giunge definitivamente al personaggio che da un punto di vista stilistico si troverà a portare un abito più o meno dettagliato. Sì, perché c’è differenza tra costume di scena per il cinema o per il teatro. Per il cinema i dettagli sono fondamentali; non si sa mai dove poggerà l’inquadratura del regista. Per il teatro, anche quello lirico, invece è diverso. Loro prediligono una particolare semplificazione ed accentuazione degli elementi formali e decorativi (come colori e texture) perché operando su palcoscenici molto grandi e vaste sale dove si ha una visione a distanza che annulla i particolari minuti, il costume particolareggiato “non passerebbe”. Mentre per il cinema o la televisione, è necessario fare la considerazione opposta: valorizzare gli elementi minimi (come ad esempio ricami e gioiellerie) per una visione ravvicinata.
Il lavoro del costumista è un lavoro dunque certosino fatto di idee, prove su prove; riflessioni, considerazioni, ripensamenti e, ore ed ore passate in sartoria. Dedizione e abnegazione per creare un artificio meraviglioso e silente che però sussurra cose bellissime.
Il costume e la memoria storica
Il costume ha una memoria culturale complessa: memoria per la storia dello spettacolo, memoria per la storia dell’interprete, memoria per la storia del costume scenico, inteso come artefatto portatore di un progetto artistico e di una tecnica artigianale.
E questa memoria concorre alla definizione del concetto di identità culturale. Il costume di scena può essere pertanto considerato come un fantastico documento di cultura materiale. Un patrimonio creativo unico e prestigioso, in gran parte anche sconosciuto, che conduce lo spettatore fin dentro il cuore della messinscena teatrale.
La sua conservazione, catalogazione e divulgazione sono fondamentali, e Fondazioni come quella di Cerratelli che racchiude nel suo scrigno abiti straordinari e cimeli meravigliosi – basti ricordare Romeo e Giulietta o gli abiti da Oscar dell’Otello, entrambi di Zeffirelli – sono da elogiare con profondo entusiasmo.
Con queste importanti riflessioni si è conclusa la tavola rotonda in ricordo di due grandi artisti che hanno segnato la storia del cinema e del teatro. E’ stato un talk piacevole ricco di aneddoti bellissimi di chi ha vissuto in prima persona l’amicizia con Valentina Cortese e Franco Zeffirelli.
Sono intervenuti, Elisabetta Invernici – Curatrice della mostra; Diego Fiorini – Direttore Artistico di Fondazione Cerratelli, Prof.ssa Mariateresa Zanola – Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Monica Bracaloni – storica dell’arte ed esperta in iconografia artistica.