Darling, ma chi ti credi di essere?
Bene ha fatto la fashion community italiana, in primis per bocca del Presidente della Camera Nazionale della Moda Mario Boselli, a respingere al mittente le critiche – palesemente pretestuose – che parte dei media anglosassoni hanno rivolto all’ultima tornata milanese di sfilate P/E 2015.
L’Independent on Sunday ad esempio ha titolato niente meno che “No new blood and no fresh ideas: How do you solve a problem like Milano?”, comparando la deludente moda italiana con quella assai più esaltante e innovativa (a suo dire) di New York e Londra. La storica fashion editor Suzy Menkes, in forze a Vogue, ha dichiarato “candidamente” di aver adocchiato in passerella troppi richiami agli anni Settanta e scarso entusiasmo per il futuro, anche per un problema di ricambio generazionale a livello creativo nonché per la modestia delle nuove leve. E via stigmatizzando.
Siamo sicuri che dietro giudizi simili non si celi, oltre ad un pizzico di invidia, l’intento di tirare la volata alle Fashion Week di altri centri, magari quelli di casa propria? Perché questi “Soloni” d’oltremanica e oltreoceano, prima di pontificare, non hanno chiesto ai buyer accorsi a Milano da tutto il mondo se hanno gradito o meno le collezioni proposte dai nostri stilisti e soprattutto perché non hanno dato un’occhiata alla cospicua entità degli ordini d’acquisto fatti? Perché, anziché “mingere” anatemi (absit iniuria verbis) contro la mancanza di giovani, non vanno a chiedere l’età di chi lavora negli atelier e negli style department delle maison? E poi diciamolo: sarebbe davvero un bene per l’equilibrio del sistema sfornare novità obtorto collo rivoluzionarie ad ogni stagione? Infine, non si sono accorte quelle penne al curaro che il revival degli anni Settanta è un trend globale, già registrato su altre passerelle? Suvvia, siate onesti, cari reporter anglosassoni che finora ci avete insegnato l’abc del buon giornalismo! Ma chi vi credete di essere?
Giulia Crivelli del Sole-24 Ore ha colto nella debolezza del nostro sistema la genesi di queste esternazioni critiche “a tutti i costi”, quindi ha spiegato così la ragione per cui la moda italiana presta facile fianco agli attacchi stranieri: “Dall’esterno si percepisce chiaramente quanto noi Italiani si sia individualisti, incapaci di fare squadra, non equipaggiati a pensare al “bene comune”. Noi siamo bravissimi a concentrarci sul “proprio particulare”, come diceva il mitico Guicciardini. Non penso che l’individualismo è l’altra faccia, ineluttabile, incancellabile, inevitabile, della nostra famosa creatività. Le debolezze attraggono gli attacchi. Se il bersaglio è facile da colpire, verrà più voglia di scagliare pietre. Comincio a pensare che alla base di queste ricorrenti e gratuite critiche a Milano e alle sue settimane della moda ci sia anche questo. Che si somma a un provincialismo che mi farebbe quasi tenerezza se non fosse molto rischioso e a una sorta di perdurante sudditanza nei confronti di certa stampa straniera. Penso ad esempio all’episodio più eclatante degli ultimi anni, quando la Condé Nast America prese carta e penna e scrisse a tutti gli stilisti italiani pregandoli di concentrare le sfilate in pochi giorni perché “la crisi aveva ridotto i budget per i viaggi, le spese in albergo ecc”. La risposta più adatta, in stile Bartleby lo scrivano, sarebbe stata: “La crisi ha colpito tutti, vi siamo vicini, soffriamo con voi, sappiamo benissimo di cosa parlate. Però no, la settimana di Milano non si accorcia. Cambiate alberghi, se proprio volete risparmiare”. Invece a parole qualcuno protestò, ma la settimana della moda divenne, per due tornate, di QUATTRO giorni. Tutti contenti in Condé Nast America, disastro per l’immagine di Milano e per il suo indotto (che conterà pur qualcosa, a proposito di “comunità” e di sistema!)”. Ben detto!
Riguardo alla durata delle sfilate, va proprio riconosciuto che è stato un madornale fallo (per non dire una scelta “tafazziana”) ridurre il calendario di Milano Moda Donna a sei giornate di cui una e mezza scevre o quasi di carica attrattiva. In sostanza i big erano tutti concentrati nei primi quattro giorni e mezzo e i giovani (comunque pochini) relegati nel torpore finale, quando la press community era già migrata in massa nella capitale francese. Giorgio Armani del resto, con la decisione di “tagliare” la sfilata della sua prima linea in chiusura di settimana, ha commentato: ”Hanno sbagliato a fare il calendario; dovevano distribuirlo meglio, giorno dopo giorno”. Parigi invece è da sempre ben determinata a “blindare” la sua Fashion Week per sette giorni sette, obbligando stampa e buyer a trattenersi per l’intero periodo. Se così fosse stato anche per Milano, i giovani debuttanti nell’ambito del progetto N.U.DE., incubatore di nuovi talenti, avrebbero potuto farsi apprezzare più e meglio.
Amareggiato dalle staffilate della stampa estera si è detto ovviamente Mario Boselli, Presidente della Camera Nazionale della Moda, il quale ha replicato contestando ciò che ha definito il “provincialismo becero” e rivendicando con orgoglio la presenza di “cose fresche” come i 15 giovani che hanno sfilato accanto ai grandi. “Evidentemente i giornalisti non sono stati attenti”, ha controbattuto. D’altro canto, la diplomatica CEO camerale Jane Reeve ha provato a sdrammatizzare raccontando: “Ho parlato con i giornalisti stranieri e mi sono sembrati tutti felici della varietà e dell’energia delle collezioni. Rifarsi agli anni Settanta non è un’accusa, erano anni bellissimi e i giovani non li conoscono, la stessa Suzy Menkes mi ha detto che non voleva attaccare la settimana della moda”. Boselli ha così concluso tra un mea culpa e un’auto-assoluzione: “Bisogna parlare non di sfilate, ma di collezioni che sono 140 tra defilé e presentazioni. Il rincrescimento più grande è non essere riusciti a dare visibilità a tutti”.
Nel nostro piccolo, ci permettiamo di esortare la CNMI a impegnarsi con più coraggio, rapidità ed efficacia sul fronte della selezione dei giovani, anche operando in sinergia con altri enti. Qualcosa si è mosso, ma è necessario attivarsi maggiormente.
Cosa si deduce da tutta questa storia? Le fila le ha tirate la giornalista economica esperta di moda del Sole-24 Ore Paola Bottelli offrendo tre spunti di riflessione: 1) l’Italia si conferma il leader manifatturiero mondiale nel segmento del lusso con circa 62 miliardi di euro di fatturato attesi per quest’anno, che fanno il paio con i 47 miliardi di export previsti; 2) molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, da un lato stanno affrontando il delicato momento del passaggio generazionale, dall’altro patiscono gli effetti della stretta creditizia, mentre le giovani leve stentano ad imporsi, anche per colpa dell’inerzia delle istituzioni; 3) in passerella sfilano non pochi marchi privi dello “standing stilistico” necessario: “Non si parla, qui, di dimensioni del business insufficienti – peraltro oltre la metà dei marchi di Milano Moda Donna ha ricavi inferiori ai 25 milioni, con una media di 12 milioni – ma proprio di contenuto di ricerca e innovazione. La sfilata ha costi importanti per le aziende e forse molti temono che un’eventuale cancellazione trasmetta pensieri negativi ai compratori. I quali, però, sono proprio gli interlocutori che hanno la maggiore necessità di scremare, soprattutto se operano sul mercato domestico sempre asfittico” afferma Bottelli.
Vogliamo darci un po’ più di slancio dunque? Altrimenti, la prossima volta, gli stranieri avranno valide ragioni per rifilarci una gragnola di uppercut.