Desdemona dice no!
Buon 8 Marzo, che sia davvero una bella festa per tutte le donne, senza vana retorica! In effetti non è proprio il caso di far discorsi artificiosi, specie se si considera che il motivo per cui si è più parlato di donne negli ultimi tempi è il cosiddetto “femminicidio”: un vocabolo entrato nel nostro lessico solo alla fine dell’ultimo decennio per designare l’omicidio della donna in quanto tale, vale a dire basato sul genere. Tali crimini rappresentano purtroppo la maggioranza delle uccisioni di donne e bambine nel mondo: la violenza domestica, cioè quella perpetrata dagli “uomini di casa”, si configura come la prima causa di morte per le donne tra i 16 ed i 44 anni, incidendo più delle malattie o degli incidenti stradali.
Il neologismo “femminicidio” si è rapidamente diffuso a livello internazionale grazie al film “Bordertown” di Gregory Nava, interpretato da Jennifer Lopez, Antonio Banderas e Martin Sheen, basato su una storia tragicamente vera che ha avuto al centro una lunghissima serie di assassini irrisolti a Ciudad Juárez, nello Stato messicano di Chihuahua: una città-fabbrica lungo il confine con gli USA, fra Rio Bravo del Norte e El Paso. Stime ufficiali riferiscono di oltre 4500 giovani donne scomparse a partire dal 1992: violentate, torturate, poi massacrate e abbandonate ai bordi del deserto, nella pressoché totale indifferenza delle autorità pubbliche.
Anche in Italia le cifre atterriscono: in media ogni tre giorni nel nostro civile e pacifico Paese una donna viene ammazzata per mano di un uomo. Attingendo al solito carnet di stereotipi e pregiudizi, i media ricorrono subito ad espressioni come “omicidio passionale” o “dramma della gelosia”, che rievocano il tristemente noto “delitto d’onore” abrogato dal nostro Codice Penale solo nel 1982, ma duro a morire nell’immaginario collettivo nazionale. In base ai risultati raccolti dalla ricercatrice Elisa Giomi dell’Università di Siena, stampa, televisione, internet tendono ad enfatizzare i femminicidi commessi da estranei (tanto più se stranieri) ed a sottostimare quelli avvenuti all’interno di una relazione affettiva… come se gli omicidi consumati tra le mura di casa non facessero veramente notizia, vale a dire come se la violenza maschile sulle donne non appartenesse alla nostra cultura ed ai nostri rapporti sentimentali.
La sociologa Giomi ha riscontrato che su 100 assassini di donne, 41 avevano come movente il “possesso” (l’uomo non accetta di essere lasciato), 19 il clima di conflittualità familiare, 11 il disagio mentale (il cosiddetto raptus di follia). La studiosa senese ha però rilevato quanto sia inopportuno utilizzare cliché come questi che in realtà finiscono per legittimare l’alibi paradossale del “troppo amore” così facendo, si arriva quasi a giustificare e deresponsabilizzare l’omicida! Per non dire di certe definizioni che rasentano l’equiparazione della vittima al carnefice in caso di suicidio dell’assassino medesimo. D’altro canto, nel volume “Uomini contro le donne? Le radici della violenza maschile” (Utet) a cura di Sveva Magaraggia e Daniela Cherubini, in uscita proprio in questi giorni, si evidenzia come specialmente in Italia prevalga ancora la tendenza a considerare la violenza domestica un fatto privato, anzi a non ritenerla violenza vera e propria, dal momento che quasi tutti siamo inclini a tutelare la sacralità della famiglia. E poi indulgiamo troppo nel ricorso a vaghi concetti psicologici e nella retorica dell’amore…
Il Vicedirettore del Corriere della Sera Barbara Stefanelli si è posta invece quella terribile domanda che è: “Perché una donna (adulta, libera) al primo spintone o anche alle prime parole selvagge non allontana da sé per sempre l’uomo che la sta minacciando? Gli resta accanto, preferisce ripetersi non sta succedendo a me e prepararsi il giorno dopo a dire ai figli (poi ai colleghi, agli amici) che non è niente, che ha di nuovo sbattuto contro la porta”. Vale la pena di riportare l’analisi acuta e coraggiosa che la Stefanelli fa del fenomeno: “La verità è che qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo. Rivela che quella relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra, ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna. Il potere maschile resta intrecciato all’ordine sociale e continua a lavorare nell’oscurità dei corpi; squilibra i rapporti e i ruoli, presidia la cultura e il linguaggio, cerca di riaffermarsi nelle scuole e nelle famiglie… Per questo dobbiamo subito liberarci dell’idea del mostro o di tanti mostri, dobbiamo sottrarci a quella reazione immediata che ci porta a dire: io non sono così, noi siamo normali. La violenza sulle donne non è una collezione di fatti privati: è una tragedia che riguarda tutti”.
A fronte di tale situazione, sempre più esponenti della società civile e giornalisti chiedono una presa di coscienza innanzitutto al mondo dell’informazione, ossia sollecitano i media a “cambiare lo sguardo” e giudicare il femminicidio soprattutto come un fatto politico, sociale ed culturale. Così nel 2011 è nata “Giulia”, la rete nazionale di giornaliste a cui hanno aderito oltre 700 persone, finalizzata a promuovere un reporting consapevole degli stereotipi e dei pregiudizi che creano discriminazioni: un giornalismo che rifugge al linguaggio sessista e che valuta la donna nella sua integrità e non come mero corpo, “qual piuma al vento”. “Giulia” è tra i sostenitori della “Convenzione No More!” contro la violenza maschile, per rompere il muro del silenzio: un’iniziativa incoraggiata anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il 2012 è stato l’anno dedicato al contrasto degli abusi sulle donne ed ha visto il movimento “Se non ora quando” lanciare l’appello “Mai più complici”, mentre questo 2013 è contrassegnato dalla campagna internazionale lanciata dalla scrittrice e regista americana Eva Ensler “Onebillionrising!”, conclusasi il 14 Febbraio, che ha visto coinvolti quasi 200 Paesi, portando nelle piazze di tutto il mondo centinaia di migliaia di persone per ballare in segno di protesta contro la violenza sulle donne.
Ma mobilitazioni ed appelli, per quanto nobili, utili e necessari, non basteranno ad arginare un fenomeno che richiede soprattutto un cambio di mentalità e di cuore. L’augurio finale è che l’espressione “Finché morte non ci separi” possa riacquistare appieno il suo senso più autentico e importante.