Donne, non stereotipi
Fra gli stereotipi più duri a morire, quelli riguardanti la figura femminile godono sempre di ottima salute. I media e la pubblicità, in particolare, si dimostrano ogni giorno una fonte inesauribile di immagini preconcette e di visioni iper-semplificate della realtà. La donna vi è raffigurata manicheisticamente come angelo o demone, mamma sempre giovane e sorridente o tosta virago in carriera, casalinga nevrotica che va in estasi per un nuovo detersivo o sex-bomb no-limits, bruttina ma simpatica o bellona mal mostosa, e via classificando.
Nessuno nega che il fine della pubblicità debba essere la vendita e che una certa dose di stereotipia sia talvolta utile all’efficace comprensione di un messaggio, ma un superiore slancio di creatività e soprattutto di etica potrebbe assicurare una resa migliore anche in termini commerciali. In nome di questo convincimento, più di 40 aziende hanno sottoscritto il Manifesto della Pubblicità, di cui si è fatto promotore il Comitato “Pari o Dispare” con il patrocinio della Camera Nazionale della Moda. Si tratta di un’iniziativa per stimolare un uso più responsabile dell’immagine femminile, volendo in particolare sensibilizzare gli addetti al marketing delle imprese verso l’esigenza di invertire la rotta sull’immagine ultra-sessualizzata, “autistica” e paranoicamente giovane della donna che filtra dal circuito mediatico e va ad incidere su come il ruolo e l’autorevolezza femminili vengono percepiti.
“Pari o Dispare” è un comitato di persone e associazioni di ogni genere (presieduto da Cristina Molinari, mentre Emma Bonino è Presidente Onorario), con lo scopo di elevare il livello di parità delle donne italiane in ambito lavorativo, partendo dalla premessa che a) il tasso di occupazione femminile è drammaticamente basso; b) le donne faticano ad occupare posizioni di alto livello ovvero, per usare un’espressione colorita, “sfondare il tetto di cristallo”, sebbene ne siano più che degne per merito.
La pubblicità è senza dubbio uno dei principali responsabili della discriminazione professionale delle donne, contribuendo a forgiare – ma anche nutrendosi di – costumi, modi di pensare, cultura del Paese. Per usare le parole di Cristina Molinari a proposito di questo “circolo vizioso”: “La rappresentazione delle donne nei media è causa ed effetto della discriminazione: effetto perché sono poche le donne che occupano posizioni di alta direzione nei media; causa perché il bombardamento mediatico ci entra in testa che lo vogliamo o no. Se le donne sono sempre rappresentate come oche o come animali ornamentali, ben difficilmente esse potranno affrontare un cammino di carriera privo di pregiudizi”.
Le 5 regole auree del Manifesto della Pubblicità sono le seguenti:
1) astenersi dal proporre immagini femminili riduttive o in termini di intelligenza o in quanto associate a stereotipi limitati, ripetitivi e segreganti e promuovendo una diversificazione delle immagini che comprenda taglie, proporzioni ed età differenti;
2) dissuadere da una trasformazione esagerata dell’aspetto fisico e della produzione di ideali estetici basati sulla finzione;
3) astenersi dal ridurre il ruolo femminile ad un corpo esposto a sproposito o non pertinente al contesto del prodotto/servizio promosso e ridotto a merce per l’appagamento di pulsioni sessuali;
4) articolare le immagini proposte entro una varietà di registri ed una più moderna concezione dei ruoli, rispetto sia alle donne che agli uomini, essendo lo stereotipo bilaterale;
5) garantire il rispetto della dignità umana e dell’integrità della persona, evitando messaggi che comportino discriminazioni dirette o indirette, o incitamento all’odio basato su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale, o contengano elementi che, valutati nel loro contesto, approvino ed esaltino la violenza contro le donne.
Con questa sorta di “codice etico” non si vuole, comunque, censurare nessuno, bensì stimolare i più diversi interlocutori mediatici a compiere lo sforzo di rappresentare più donne reali, senza cedere alle lusinghe di canoni edonistici, per giungere così a riscoprire modelli di femminilità più genuini.