Ethical Fashion: il futuro della moda o solo un paradosso?
Ethical Fashion il convegno internazionale promosso dalla Università Cattolica di Milano (7-8 maggio u.s.) si è chiuso lasciando aperta una lunga serie di interrogativi.
Ci è sembrato impossibile riassumere tutte le fasi dei lavori in un quadro coerente e chiaro per chi non fosse addentro al tema. Abbiamo preferito offrire ai lettori una sintesi della tavola rotonda che ha chiuso il convegno ed una trattazione più generale e personale che potesse facilmente orientare i lettori relativamente al tema in discussione. Di seguito le considerazioni e gli interrogativi che ci sono sorti nell’ascolto dei relatori.
Scenari per una moda etica è il titolo del secondo articolo.
Ethical Fashion (moda etica) ha i suoi sinonimi o meglio i suoi complementi nelle espressioni moda critica, responsabilità sociale delle imprese di moda, moda sostenibile, sostenibilità sociale e ambientale delle imprese di moda, ecc. che vengono a comporre un quadro di complessità del tema che rende ragione di quanto detto sopra a proposito degli interrogativi posti.
La prima giornata del convegno segnala i fronti di lavoro e le tematiche principali che si affronteranno, esse vengono riassunte sotto la difficile parola della responsabilità, marchio di riconoscimento della moda etica.
Nella trattazione dei temi proposti nelle giornate di studio, appare da subito evidente che non è possibile prescindere dal far riferimento a tanti protagonisti dell’argomento in questione. Lo scenario culturale, la moda, il mercato e il consumatore, la globalizzazione e i mercati emergenti, la tradizione artigianale, la creatività, l’innovazione, il lusso, la crisi economica, il business, la tutela dei diritti, il mercato di moda infantile; consumi consapevoli e produzioni responsabili, le responsabilità dei media; il nuovo,l’usato, il vintage, ecc. sono parole ricorrenti.
Ad alcune di esse bisogna dare da subito un contenuto preciso per poter ragionare sulle questioni dibattute.
Anche se sembra un paradosso, per affrontare il tema della moda etica bisogna innanzitutto giustificare la possibilità di una moda nell’accezione di sostenibile/critica/etica, al confronto con l’essere della moda stessa. Su questo punto i pareri dei relatori sono molto contrastanti e netti, si dividono in fautori e detrattori, senza mezzi termini che possano far pensare ad una composizione del “conflitto”
Moda per sua natura è novità, cambiamento. La moda vive del suo continuo morire, della sua fugace persistenza nel tempo. Ciò che oggi è di moda e merita di essere acquistato ed indossato, perché in grado di caricare la persona di quei valori semantici e culturali che l’abito porta con sé; domani, all’avvento di una nuova moda, è fuori moda e deve essere smesso perché non è più in grado di assolvere alla sua funzione, quella di rappresentare la persona nel contesto culturale del momento. Perché la moda sopravviva, questo nascere e morire, deve continuamente ripetersi. E se fino a qualche anno fa il ciclo di moda-fuorimoda era stagionale, oggi con l’avvento delle catene definite del Fast Fashion, dove il tempo di sopravvivenza del capo di abbigliamento è marcato in una settimana, veramente sembra che il valore culturale del Nuovo, sostenuto da Gilles Lipovetsky qualche anno fa, debba essere considerato come il ritmo definitivo della nuova modernità.
Moda sostenibile da parte sua significa altro. Chiama in causa valori non proprio “alla moda” distanti da Nuovo, come sobrietà, durata, riutilizzo, consumo responsabile, responsabilità.
La moda vive anche, si specchia e riflette, delle cadenze culturali.
Ed è proprio la cultura del momento ad evidenziare le problematiche insite nel tema della moda sostenibile. In relazione all’essere della moda, la moda critica si colloca allo zenit del processo storico che ha visto la moda passare da fenomeno di élite a fenomeno di massa, dove la parola d’ordine è: consumo in crescendo. La moda critica tende a frenare il consumo, spinge a comprare di meno, in modo oculato e solo ciò che serve veramente; a riutilizzare o ad utilizzare meglio ciò che già si possiede; non è il nuovo ad avere l’esclusività del bello, anche ciò che è passato può avere il suo fascino, la sua carica diversa/nuova di significato, nel momento in cui da “vecchio” si trasforma in “vintage”; non sarà il “vecchio” tout court, a poter entrare nel mondo della moda, ma il vintage, il vecchio che si è caricato di un nuovo significato, che possiamo dire glamour.
La moda critica si rifà alla cultura della responsabilità. Si rivolge ad un soggetto che ha un passato (radici e tradizioni) ed è proiettato verso un futuro che ha progettato e che va costruendo giorno dopo giorno, in un costante esercizio di attesa e di condivisione con altri: perché passato e futuro chiamano in causa le relazioni, l’appartenenza.
Ma ciò è nettamente in contrasto con la cultura del vivere solo nel presente e solo in ascolto della soggettività personale, caposaldo dell’individualismo moderno. Il consumismo ad oltranza che sperimentiamo sui mercati della moda sta su una onda diversa. Il consumatore di moda vive nel presente, vive il consumo di moda come una esperienza attuale e sensoriale e per ciò stesso individuale e non condivisibile. L’abito è ancora utilizzato per essere riconosciuto, ma non già come appartenente ad un luogo, un ceto, una categoria professionale o culturale, e neppure serve a indicare una scelta di stile di vita; l’abito serve ad essere riconosciuto come unico, come singolarità irrepetibile, che nulla può condividere con la singolarità di chi gli sta accanto. In questo individualismo chiuso in se stesso, non ha spazio la responsabilità reclamata dalla moda critica. Il tema del consumo e l’identità del consumatore saranno fondamentali al momento della valutazione della possibilità di impiantare la moda etica.
Il rapporto essenziale della moda con estetica, con il bello e il lusso, pone nuovamente la moda critica in una posizione di antitesi con la moda “ufficiale” e rispetto alla possibilità di trasformarsi in un fenomeno di massa. La moda critica fa immediatamente pensare a materiali poveri, al loro riutilizzo; sembra indicare la necessità di dover rinunziare a tutto ciò -trattamenti fisici o chimici- che oggi serve a nobilitare fibre e tessuti, capo finito, per porre il prodotto finale nella nicchia del bello e del lusso, perché questi trattamenti sono non rispettosi dell’ambiente e dei lavoratori. Proprio nel momento che stiamo vivendo, la moda “ufficiale” e il Made in Italy in particolare si appellano, per uscire dall’empasse di una crisi senza precedenti, alla categoria del lusso, alla esclusività, alla personalizzazione che rende unico, all’accuratezza del prodotto e alla qualità dei materiali. Bisogna però riconoscere che la moda etica vuole spingere l’acceleratore sulla possibilità di ottenere, anche se con materiali “poveri” o fibre naturali non usuali, capi fashion e molti stilisti di fama con sensibilità ecologica si sono cimentati nel’utilizzo di nuove fibre. A titolo di esempio citiamo il bell’abito in fibra di mais della collezione Gattinoni, esempio del lavoro di ricerca intrapreso dal
direttore creativo Guillermo Mariotto. Altro filone di sperimentazione interessante, e dove la moda etica può trovare un alveo di sviluppo, è lo sforzo nell’utilizzare gli scarti delle produzioni di alta gamma, per ottenere, prodotti di qualità a basso prezzo. Le iniziative su questa linea sono molte e in questo si cimentano anche allievi di scuole di moda.
Insomma da qualsiasi punto di vista si guardi il tema, la moda critica sembra distante dalla possibilità di poter passare essa stessa da un fenomeno di élite, perché tale è nel momento attuale, a fenomeno di massa e tutto concorre ad affermare che sarà difficile imprimere un cambio ad un modello di consumo “irresponsabile” che sembra consolidando, ma che è anche motivo di sopravvivenza dell’industria della moda.
Ci sembra di dover dire che bisogna marcare una distinzione tra i due fondamentali versanti che il tema della moda etica comporta, quello della responsabilità etica dell’impresa e quello del business di impresa.
Da una parte dobbiamo considerare il tema della salvaguardia dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, dall’altra la possibilità che la moda etica si presenti come un progetto industriale vantaggioso per le imprese; non possiamo trascurare il problema della possibilità di impiantare un cambio nelle abitudini del consumatore tanto da potersi operare un passaggio dal fast fashion allo slow fashion.
A nostro parere i due ambiti prospettano scenari diversi per la ethical fashion, non riconducibili l’una all’altra. Dal momento che i semi culturali trovano nell’ambito della moda il loro riflesso e sviluppo, sono le tendenze culturali osservabili a “occhio nudo” ciò che motivano questa distinzione.
Il tema della responsabilità etica sembra aver trovato un posto obbligato nelle maggiori manifestazioni fieristiche del mondo, dalle sezioni di Pitti filati all’Etical Fashion show di Parigi. Tutte accordano una attenzione rinnovata ai temi della sostenibilità ambientale ed alla utilizzazione di fibre naturali. Queste però devono essere prodotte a partire da coltivazioni con cicli di produzione a basso impatto ambientale, senza fertilizzanti, pesticidi, diserbanti o altri prodotti nocivi per l’ambiente, per le falde idriche o per la salute del lavoratore e del consumatore. Le fibre naturali si ribadisce inoltre si prestano a colorazioni di tipo vegetale che non producono scorie chimiche. Altro aspetto importante è quello della sostenibilità sociale nella sua prospettiva di tutela dei lavoratori e specialmente dello sfruttamento dei lavoratori minori.
Ciò rispecchia una oramai assestata sensibilità ecologica, a diffusione globale e di rispetto ai diritti del lavoratore. Insomma il tema della responsabilità eco-sociale dell’impresa è un dato assodato. E su questo fronte la moda etica viaggia su un treno sicuro, le tendenze culturali possono solo rafforzare un percorso già ampiamente battuto. Ne fa fede il fatto che l’ONU abbia proclamato il 2009 l’Anno Internazionale delle Fibre Naturali con l’ obiettivo di dar vita ad iniziative che consentano di far conoscere all’opinione pubblica internazionale le condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni che, nei diversi paesi del mondo, affidano il loro futuro alla coltivazione e alla lavorazione del cotone e del lino, all’allevamento degli animali da tosa e dei bachi da seta, prima tappa della lunga filiera della moda che trova nei paesi ad alto reddito il suo sbocco naturale. In vari Paesi, anche in Italia, sono stati costituiti comitati promotori di iniziative locali. Potremmo anche aggiungere che la responsabilità etica su questo fronte si sta muovendo su un importante fronte di ricerca. Si pensi alle ricerche (o al rinnovato interesse) di nuove fibre naturali, come le fibre dell’ortica, della caseina o il chitosano; le ricerche su coloranti vegetali di foglie, fiori, bacche e radici, quali l’edera, noce, sandalo, liquirizia, mirtillo, te, equiseto e tormentilla. I colori sono tenui, forse distanti da quelli accesi che ultimamente la moda ci propone, ma sicuramente sono chic.
Ma guardiamo il problema dal punto di vista della possibilità di trasformare la moda etica in un business di interesse per le aziende di moda.
Partiamo dalla constatazione che il modello di consumo della moda che viviamo è un modello che si è sviluppato a partire dal desiderio del consumatore di possedere un oggetto utilizzato da un élite, per soddisfare non un bisogno materiale, ma un bisogno evidentemente immateriale. La natura della moda etica con le sue caratteristiche di riutilizzo, di durevolezza, di tradizionalismo ecc, e in un certo senso di “povertà”, lo abbiamo già detto, contraddice la natura del fenomeno moda quale la storia ce lo ha consegnato. Ciò non toglie che la moda etica, a nostro parere, possa diventare una filone parallelo alla moda di massa. Ma ecco che siamo di fronte ad un paradosso, la moda etica sarà quindi una moda di élite, che potrà trovare campo di sviluppo solo nel mondo avanzato e solo tra quelle persone che ideologicamente condividono i valori portati da questo segmento “produttivo”. Da questo punto di vista la moda etica può rappresentare per qualche azienda il proprio core business. Non sarà il nuovo modo di fare moda di massa come alcuni slogan ripetono, ma semplicemente un modo alternativo di fare moda.
Ci auguriamo però che la moda etica con il suo richiamo al consumo responsabile possa portare, sfruttando anche la crisi economica attuale, ad un modo diverso di consumare, più razionale, meno emozionale.
Tutto dipenderà dal consumatore. Il modello di consumo della moda che viviamo è un modello che è andato incontro alle esigenze del consumatore, ha giocato sull’esasperazione dell’individualismo moderno, per interpretare, prevenire e potenziare le esigenze del consumatore. Cosa dovrebbe succedere per sperimentare un cambio che consenta alla moda etica, o meglio ai valori espressi dalla moda etica, di diventare il motore del consumo? Viene da dire, un cambio epocale, una situazione economica globale che determini un cambio culturale e di valori nella società. Ciò non è auspicabile, ma ci rimane da sperare che i concetti espressi dalla moda etica aiutino a ridimensionare o almeno frenino un processo consumistico che parrebbe irreversibile.
La Moda etica auspica un’altra moda. Che questa aspirazione sia realizzabile, rimane nell’ambito del possibile. Il merito per l’equipe della prof. Bovone di aver voluto mettere sul tavolo della discussione i tanti problemi che il tema porta con sé, ascoltando i fautori e i detrattori, gli entusiasti e gli scettici, e di aver esaminato il tema dal punto di vista teorico, ma di aver anche mostrato le piccole virtuose realizzazioni in questo campo.